Mis(S)conosciute - La newsletter #12: Suso Cecchi D'Amico, Loreta Minutilli e Camilla Bisi
Scrittrici (e altre cose) tra parentesi
Ciao!
Questa è la newsletter di Mis(S)conosciute - scrittrici tra parentesi: noi siamo Giulia Morelli, Maria Lucia Schito e Silvia Scognamiglio e in questo spazio parliamo di tutto ciò di cui secondo noi si parla ancora troppo poco e di tutte quelle tematiche sulle quali vorremmo porre l’accento e accendere riflessioni.
Quello che segue è un flusso di coscienza scritto (con ben poca coerenza argomentativa) da una di noi tre, che però potrebbe essere stato scritto da ognuna di noi: perciò abbiamo deciso di lasciarlo alla prima persona singolare, abbandonando per questo numero il plurale che normalmente utilizziamo.
Recentemente ho ascoltato varie puntate del podcast italiano Lady Killer, che ripercorre le macabre vicende di serial killer donne nella storia: animali piuttosto rari, invero. Il podcast in sé non mi ha entusiasmata, anche per una sorta di pietismo implicito e vagamente paternalista nel giudizio complessivo dei delitti commessi da queste assassine. A rischio di suonare sessista, mi sbilancerei dicendo che si vede che chi ha scritto il podcast è di sesso maschile. Però mi ha colpita un dato, che in parte forse giustifica quell’occhio di riguardo morale che permea il racconto, senza mai - mi pare - mettere davvero a fuoco le ragioni della mitezza di giudizio nei confronti di pluriomicide: la maggior parte delle protagoniste delle storie delittuose di Lady Killer ha infatti rivolto la reiterata volontà omicida nei confronti della prole e, in seconda istanza e in forma molto più circoscritta, a partner o conoscenti abusanti. Insomma, non serve un genio del profiling per constatare che la caratteristica che accomuna la stragrande maggioranza di queste assassine è che sono madri molto prolifiche.
Spessissimo, le donne assassine seriali del passato i cui profili vengono tracciati dal podcast, appartenevano al proletariato rurale o suburbano dell’‘800 e della prima metà del ‘900, vivevano in condizioni di indigenza, violenza, sfruttamento estremo. Molte di loro avevano subito fin dall’infanzia abusi, stupri e poi matrimoni imposti, gravidanze al ritmo di una all’anno, aborti spontanei o indotti in modo cruento da mammane, morti in culla o premature di figli a cadenza regolare. Molte, rimaste vedove, si prostituivano per vivere o si risposavano con uomini violenti, dispotici, che, coerentemente con le temperie storiche, disponevano a proprio piacimento delle vite di mogli e figli.
Dunque, molte delle serial killer del passato erano principalmente infanticide: si accanivano sulla prole, eliminandola più o meno sistematicamente e spesso non senza sadismo, con l’intento, dichiarato o meno in sede processuale, di risparmiare ai propri figli un destino di privazioni e miserie simile al proprio e, forse, di riguadagnare - in un modo brutale e vicino alla follia - una piccola quota di sollievo dalla maternità, che per innumerevoli generazioni di donne è stata un giogo inevitabile, incontrollabile, incomprensibile e doloroso. Rispetto a quest’ultima affermazione, la mia bisnonna Teresa tra gli anni ‘20 e ‘30 partorì e crebbe undici figli (senza ucciderne nemmeno uno!): in pratica, comunque, trascorse quasi nove anni della propria vita in gravidanza. In famiglia è ricordata come una figura leggendaria, ammirata per la “grande impresa” della sua vita, cioè essere stata una madre prolifica, che senz’altro amò molto i suoi figli, generati probabilmente senza sapere bene come e perché.
Mi chiedo sempre cosa avrebbe fatto, se avesse potuto scegliere - se avesse saputo di poter scegliere.
Saltando, solo parzialmente, di palo in frasca, tra le esperienze catartiche che di tanto in tanto mi concedo, rientra la recente lettura di Per cause innaturali, memoir del medico legale britannico Richard Shepherd: ho scoperto - ammetto che lo ignoravo - che nell’ordinamento inglese, l’infanticidio è equiparato all’omicidio colposo - quindi passibile di pena attenuata - quando viene perpetrato ai danni di un bambino sotto i dodici mesi di vita da parte della madre, il cui stato mentale sia turbato dagli effetti del parto e dell’allattamento. In Italia, l’infanticidio (art. 578 del codice penale) prevede invece una pena attenuata solo nei confronti della puerpera che uccida il neonato subito dopo il parto o durante il parto in condizioni particolari di abbandono materiale e morale: in tutte le altre circostanze, l’infanticidio è omicidio volontario.
Spero di non aver scritto castronerie marchiane - la mia esperienza legale è limitata al binge-watching di Law and Order - Criminal Intent e naturalmente se c’è qualche giurista tra i nostri lettori, è invitat* a puntualizzare - ma il fatto che il sistema penale conceda delle attenuanti a una madre che uccide il proprio neonato è significativo della presa d’atto “istituzionale” della maternità come evento traumatico, nel bene e nel male, in cui il corpo e la mente della donna subiscono alterazioni di grande portata, in particolare laddove manchi una rete familiare e sociale di protezione. La maternità è un trauma, per quanto il mondo cerchi di ignorarlo e la società e le sue emanazioni comunicative non facciano altro che cercare di indorare la pillola con una narrazione edulcorata e stucchevole di un passaggio fondamentale della vita delle donne che scelgono di generare e che, spesso, si ritrovano sole, poco supportate da compagni e famiglie e soprattutto dalle infrastrutture politico-sociali che dovrebbero agevolare l’arrivo e l’inserimento di una nuova creatura nel mondo (v., tra le molte cose, la questione del congedo parentale esteso integralmente ai padri, obliterata periodicamente).
Trovandomi nella dantesca età di mezzo in cui è inevitabile porsi la domanda fatale sul fare (o non fare) figli, anche perché il tempo inizia a stringere e mi piacerebbe averne, è questa solitudine potenziale in cui mi troverei immersa a spaventarmi più di tutto - anche più della violenza ostetrica (ma solo perché non sono effettivamente incinta). Una solitudine che è sistemica, sociale ma pure personale, perché ho la convinzione, più o meno fondata, che, in generale, per i nostri compagni, mariti, uomini i tempi non siano ancora maturi per l’assolvimento pieno e consapevole dei doveri genitoriali - da cui, l’angosciante scenario, forse più irragionevolmente temuto che suffragato da evidenze reali, di ritrovarsi, d’emblée, madre di un neonato e di suo padre - e anche perché, che mi piaccia o meno ammetterlo, la maternità, essendo in primo luogo un’esperienza organica, corporea, spesso non proprio piacevole, che si confronta in modo diretto con lo spazio e il tempo, letteralmente creandoli di nuovo, per quanto condivisa amorevolmente e solidalmente con un partner, resterebbe fondamentalmente una questione che riguarderebbe - nel suo concreto e materiale farsi - quasi solo ed esclusivamente me, in quanto portatrice di feto. Me e mia figlia, mio figlio, naturalmente.
Che poi è vero fin lì, quanto ho appena affermato, perché se posso fare un appunto all’interessante dibattito sulla maternità a cui ha dato il via Simonetta Sciandivasci su Specchio de La Stampa è che, con l’eccezione del suo pezzo d’apertura, quasi tutti i contributi letti mi sono sembrati un filo troppo personali, se non personalistici. Insomma: mi è mancata l’analisi di sistema, di scenario - presente e futuro -, di pensiero, cioè politica, che invece ritrovo puntualmente nei pezzi sul tema di Lucia Brandoli su The Vision e in un recente articolo di Selena Pastorino su L’Indiscreto, e che dovrebbe aiutarci a capire perché, politicamente, fare uno o più figli qui e ora, in Italia (ma pure in contesti socio-politici simili), è una scelta così difficile da compiere sotto così tanti punti di vista, che tiene tanti di noi in stallo, con angoscia e apprensione.
Un’analisi, insomma, che possa in qualche modo dare una spiegazione convincente a questa pagina strampalata, che parte dalle serial killer di figli e, passando per il ricordo della prolifica bisnonna Teresa, indugia poi sull’indulgenza riservata da alcuni sistemi legali all’infanticidio per chiudersi sulla difficoltà dei Millenials di sobbarcarsi il “costo” umano e sociale della Vita.
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Uno spazio in cui una scrittrice ospite consiglia ai lettori di #missconosciute un’autrice da leggere: la sua autrice preferita, una scrittrice troppo poco nota, poco pubblicata, un libro poco conosciuto di un’autrice famosa o la scrittrice che secondo lei tutti dovrebbero leggere.
LORETA MINUTILLI LEGGE CAMILLA BISI
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