Mis(S)conosciute - La newsletter #26: Partigiane e Resistenza, poesia e Niki-Rebecca Papagheorghìou
Scrittrici (e altre cose) tra parentesi
Il mese di aprile, come di consueto e quest’anno più fortemente che mai, dati i tempi che corrono e i venti che soffiano, lo dedichiamo alla Resistenza e in particolare alle donne che l’hanno fatta e che per la libertà e la Liberazione hanno dato la vita. Iniziamo da questa newsletter, in cui raccontiamo, nella rubrica BioSconosciute, la partigiana e scrittrice Giovanna Zangrandi, testimone moralmente imponente della fase storica più cruciale del ‘900 italiano che, a nostro parere, meriterebbe una rilevanza ben maggiore nella narrazione della Resistenza italiana.
Nelle prossime settimane sui nostri canali riprenderemo la consuetudine della #StaffettaMissconosciute, raccontando con il vostro aiuto e con le vostre memorie familiari e letterarie la storia ancora in parte in ombra della Resistenza delle donne, citando il titolo di un pregnante saggio di Benedetta Tobagi recentemente pubblicato da Einaudi.
Pedaleremo insieme verso il 25 Aprile.
Ma aprile è anche il mese che precede maggio, che si apre con la Festa dei lavoratori e delle lavoratrici, altro momento civile e politico di primaria importanza per la nostra Repubblica.
E proprio di donne e lavoro vorremmo parlare. Ma prendiamola ancora più da lontano: ieri è uscito il report dell'Istat sugli indicatori demografici relativi al 2022 e per la prima volta dall'Unità d'Italia i nati sono scesi sotto la soglia delle 400.000 unità. La natalità è quindi al minimo storico, con un tasso di fertilità di 1,24 figli per donna. Insomma: il temuto inverno demografico è già iniziato. Il tema della natalità e del suo calo è tale per cui il governo meloniano gli ha co-intestato - ovviamente per una serie di motivi, per noi, tutti sbagliati - un dicastero già esistente (quello delle Pari opportunità e della famiglia) ed esso è innegabilmente legato a doppio filo a quello del lavoro.
Del lavoro delle donne, ovviamente, perché quando si parla di natalità e famiglia - soprattutto “tradizionale” - improvvisamente l’istituto fondato sulla coppia (etero) per antonomasia si trasforma linguisticamente e concettulmente in entità mononucleare in cui il “problema” è la donna, la madre reale o potenziale.
Non amiamo molto la forma del personal essay ma, per pronunciarci sulla questione, ricorreremo anche alla nostra esperienza.
Speriamo che per chi ci legge sia scontato assumere che le ragioni del calo demografico italiano - che non ha eguali in stati europei vicini e simili sotto il profilo economico-politico - sono strettamente correlate alle quasi inesistenti politiche di welfare, assistenza e conciliazione rivolte alle famiglie (alle famiglie, non solo alle madri), al tasso di disoccupazione femminile più alto d’Europa, alle discriminazioni sul lavoro sperimentata dalle donne dopo la gravidanza e spesso prodromiche alle dimissioni “spontanee”.
Ma anche le donne che il lavoro ce l’hanno - con o senza figli (noi tre, al momento, ricadiamo nella seconda casistica) - vivono per lo più immerse in un “mondo del lavoro”, per utilizzare un’espressione dal sapore distopico, ancora modellato a misura di maschio adulto del secolo scorso.
Tempi, modalità, dinamiche del lavoro in sé - di quasi qualunque lavoro, dalla catena di montaggio agli open space dell’alta finanza - e della sua organizzazione sono tarate su una presenza ologrammatica e scissa (ma sempre vagamente machista) la cui esistenza si dà esclusivamente all’interno del “mondo del lavoro”, un’entità monadica completamente disgiunta dalle relazioni, i ritmi, gli equilibri che regolano la vita al di fuori del perimetro della professione.
Monadi, appunto, che assomigliano molto agli uomini della seconda metà del secolo scorso (ma anche ad alcuni che hanno la nostra età, evidentemente), che avevano (hanno?) appaltato in toto la cura della vita in senso lato - paradossalmente, anche quella sul lavoro - alle donne intorno a loro (spesso lavoratrici anch’esse) e che nella dimensione del lavoro si identificavano (identificano?) completamente, identitariamente, avendone del resto sempre storicamente tratto benefici maggiori delle donne.
Gli esempi sono infiniti e forse basta ripercorrere qualche giornata di lavoro tipo per rendersi conto di quanto l’assuefazione a questo modello - che non prevede e mal tollera legami, impegni familiari, incombenze pratiche e immateriali e tutta la lunghissima sequela dei vari “carichi mentali”, come vuole una formula vulgata, che generalmente e frequentemente ricadono sulle donne (anche quelle che non hanno figli) - ci abbia assoggettate e snaturate e di quanto sia quasi impossibile, allo stato attuale, pensare di metterlo in discussione, anche quando a guidare imprese, aziende, studi, attività commerciali ecc. ci siano delle donne.
Come dicevamo, gli esempi non si contano e sono di vario ordine, toccano i nostri corpi e le nostre vite, spesso mortificandoci: dalla FCA di Melfi che nel 2015 ha respinto “per ragioni di decoro” la richiesta delle operaie di sostituire la tuta bianca d’ordinanza con tuta di altro colore per occultare le macchie di sangue mestruale durante il ciclo (disclaimer: alla catena di montaggio non si decide spontaneamente quando andare in bagno) ai ritmi forsennati e ai continui e repentini ribaltamenti di orari, viaggi, impegni che contraddistinguono i nostri lavori, nell’ambito dei media, e che rendono quasi impossibile conciliare il lavoro con la vita, gli affetti, gli impegni personali e familiari.
Ma quando la donna sei tu, allora chi ci pensa e chi fa tutto ciò che non puoi pensare, fare, organizzare, dare e prendere perché il lavoro non te lo permette? Sottrarsi a queste logiche sembra impossibile ma per quanto possiamo ancora permettercelo, non solo come donne ma come società? Per poco. Il calo demografico è già una prima destabilizzante risposta a questa domanda, che interroga l’architettura stessa del mondo e del sistema valoriale Occidentale.
Potremmo scrivere un saggio ma non è questa la sede e, per molti dei motivi sopra esposti, siamo comprensibilmente già stremate. Quello che ci auguriamo è che prima o poi, speriamo prima, la coscienza collettiva possa prendere consapevolezza di questa sperequazione che ci ferisce e che essa possa diventare il motore di un grande sciopero generale, sul modello di quelli che Oltralpe stanno giustamente dilagando in materia pensionistica, ma ancor più universale. Lavoro per tutte. Ma un lavoro migliore di quello di oggi.
20 aprile - Genova [DAL VIVO]
Giovedì 20 aprile alle ore 18:00 presso il Palazzo Ducale di Genova, Sala del Munizioniere, partecipiamo alla rassegna Paradigmi, curata da Ilaria Crotti. La rassegna pone l’accento sul sistema dei canoni, in arte e in letteratura, per mettere a fuoco le cause che inducono il sistema istituzionale a mancare di inclusività verso una nutrita serie di scrittrici. Modera l’incontro Sara Sorrentino.
21 aprile - Genova [DAL VIVO]
Alle 21:00 incontriamo il GruppoLettureMeravigliose - e chi vorrà unirsi! - all’Emporio Solidale, per chiacchierare di autrici misSconosciute, scambiarci consigli di lettura e presentare L’esile penna.
4, 5, 6, 7 maggio - Parma [DAL VIVO]
Scintille di Editoria - Oltre il Canone: il secondo movimento della rassegna che abbiamo co-curato assieme alle ragazze di Scintille Bookclub prende forma ai primi di maggio in una quattro giorni di incontri, talk, performance con tantissim* ospiti - molt* de* quali a noi molte care! - alla Vetreria di via Dalmazia e a Colonne28.
Domenica 7 maggio ci sarà anche una sessione di pitching in cui chi ha seguito il nostro corso di podcast potrà presentare la propria idea di serie ad alcuni esperti del settore.
A breve sarà online il programma: se sarete in zona, vi aspettiamo!
Uno spazio in cui una scrittrice ospite consiglia ai lettori di #missconosciute un’autrice da leggere: la sua autrice preferita, una scrittrice troppo poco nota, poco pubblicata, un libro poco conosciuto di un’autrice famosa o la scrittrice che secondo lei tutti dovrebbero leggere.
ELISABETTA GARIERI LEGGE NIKI-REBECCA PAPAGHEORGHÌOU
Elisabetta Garieri vive tra Marsiglia, Roma e Atene. Ha studiato Lettere Classiche, specializzandosi in ricezione del mito, e oggi è traduttrice editoriale e scout dal francese e dal greco moderno. Tra le sue collaborazioni ci sono Crocetti, Il Saggiatore, Iperborea, Elliot, Cliquot, Argolibri. Si occupa anche dei social media per Aiora, casa editrice di Atene che pubblica classici greci moderni in traduzione italiana. È sopravvissuta all’adolescenza, a Verona, grazie alle versioni di greco e alle riunioni nei centri sociali. La sua opera letteraria feticcio è Quarta dimensione di Ghiannis Ritsos, ma si sente un po’ come la Pizia di Friedrich Dürrenmatt.
Una lingua che emette radiazioni luminose: riscoprire Niki-Rebecca Papagheorghìou
Non ho scoperto Niki-Rebecca Papagheorghìou da sola: anni fa, l’amico e collega Andrea Franzoni lesse la sua raccolta di prose poetiche dal sapore surreale, popolate da insetti, animali e piante, nella traduzione francese di Evanghelia Stead e, folgorato, mi chiese di trovare quel libro e leggerlo in greco, io che potevo.
La traiettoria di Il grande formichiere e altre, piccole, favole in poesia, pubblicato da Argolibri nel 2021, è anche la mia: a Marsiglia conosco Andrea, che lì scopre il libro; ad Atene acquisto l’originale e vado sulle tracce dell’autrice; a Roma, invece, prende forma l’edizione italiana, tradotta da me e arricchita dalle illustrazioni di Giuditta Chiaraluce, da un’introduzione di Evanghelia Stead, da una postfazione di Francesca Sensini e da un ritratto dell’autrice scritto dal suo editore greco, Stavros Petsòpoulos. Sempre tra Roma e Atene, infine, incontro di persona la regista teatrale e drammaturga Giorgina Pi, che già conosco e apprezzo, e che attualmente sta lavorando sui testi di Papagheorghìou, assieme a quelli di Maria Zambrano, di Maria Luisa Spaziani e di Artemidoro, per il suo prossimo progetto dal titolo Sogno creatore.
Nel rovente giugno ateniese del 2018 – quando «l’estate si chiude sopra la città come la porta di una botola», come direbbe la scrittrice Angela Dimitrakaki – perfezionavo il mio greco, sudando ogni mattina a piedi fino all’università, in cima alla collina di Zografou. Per sfuggire al sole accecante, di pomeriggio andavo a sedermi su una panchina all’ombra, nel parco Skopeftìrio, accanto ai pappoùdes, i nonnini, e alle bandiere rosse del memoriale per i resistenti giustiziati dai nazisti nel 1944. Lì tentavo di sondare i misteri di quel piccolo libro strano. Sole e ombra sono importanti, perché tutta la scrittura di Papagheorghìou si nutre della dialettica luce/buio.
Con l’oro e con il nero
Notte, tu che passi le tue stelline al setaccio più fitto, e tieni solo le sottili, le luminose, le fine, insegna anche a me come fabbricare, con l’oro e con il nero, un minuscolo chiarore astrale.
Il mio invito a leggerla, oggi, è un invito a riscoprire con lei le infinite possibilità aperte da una consapevolezza profonda della lingua che ci mettiamo in bocca; e di come si possa trasformare in un amuleto radioso, per resistere alle ingiustizie che rabbuiano il nostro animo e il mondo.
Il talismano
Le cose che gli altri buttavano, incautamente, una ad una le raccoglievo io nel mio cuore. In un giorno luminoso, in una notte buia, forse fabbricherò, pensavo, con quelle, qualcosa come un talismano.
Nata ad Atene nel 1948 e lì morta suicida nel 2000, ebbe una vita non facile, accompagnata dalla sofferenza psichica. Se questa può sembrare un triste destino inscritto nella sua genealogia – suo nonno conosceva la principessa Maria Bonaparte, tra le prime psicanaliste in Europa, che in una vecchia foto di famiglia tiene le mani sulle spalle di una piccola Niki-Rebecca – i maltrattamenti del padre, che la picchiava, e le difficili relazioni familiari non saranno stati estranei alle sue difficoltà.
Nonostante questo, nel documentario, mai ultimato, della regista tedesca Monica K. Zanolin su di lei, appare allegra e piena di vita, mentre canta, ride e suona il piano nel suo appartamento ingombro di ninnoli che amava radunare. Nel corso degli anni Settanta, ancora giovane, per mantenersi teneva anche un piccolo negozio nel mitico quartiere di Exarchia, dove fabbricava e vendeva oggetti e gioielli fantasiosi, in pelle e in tessuto.
L’unica edizione delle sue opere riunisce due raccolte di piccole prose, o microracconti: Calvario, del 1986 (letteralmente La Passione del lino, un’espressione che in greco ha origine nella lavorazione lunga e laboriosa richiesta da questa pianta, per essere trasformata in fibra tessile: «ho vissuto la Passione del lino» somiglia all’espressione italiana «è stato un Calvario»); e Il grande formichiere, del 1993. La sua unica altra opera è un originalissimo “fotoromanzo” dal titolo Le due sorelle, un collage composto da vecchie foto di famiglia e cartoline: la storia di una sorella che invidia l’altra, perché è più bella e ha più pretendenti, ma finisce poi per sbeffeggiare tutti i suoi, scongiurando l’orribile vita matrimoniale.
Misteriosa, poco conosciuta, per niente studiata, questa scrittrice in Grecia, negli ultimi anni, sta vivendo una progressiva riscoperta da parte di giovani poete e poeti della scena contemporanea, che se ne innamorano. Su di lei, il materiale critico è del tutto assente e le recensioni scarseggiano. L’autrice di una di queste, Lisi Tsirimokou, per presentarla esordisce con una nota citazione di Virginia Woolf: «Volevo scrivere della morte, ma la vita ha fatto irruzione come al solito» e prosegue dicendo che, nella sua opera, sembra risuonare una domanda, pronunciata con voce infantile, come un brusio di sottofondo: «Giochiamo alla morte?». In effetti, Papagheorghìou indaga la questione della morte in tutti i modi, ma ciò che colpisce, è come riesca a farlo con gli strumenti di una vita pulsante. L’atmosfera dei suoi scritti è dominata dall’aggettivo σκοτεινός, /skotinós/ (“buio”, “scuro”, “cupo”) – oltre che da boschi e foreste – ma le immagini che crea spiccano nitide, illuminate da una lingua ironica e giocosa. Come dice ancora Tsirimokou: «Ha arroventato la sua lingua, provocando in essa un corto circuito, per illuminare il suo labirinto interiore».
Se non è il buio ad avere il sopravvento, è perché l’autrice accende la sua lingua anche disseminandola di piccoli animali totem, necessari a tenere viva la sua luce interiore. L’uccello raro della prosa omonima; l’insetto che si accende nel cestino in Egina; le lucciole intrappolate da uomini crudeli, nelle loro proprietà private, in Insetti; «l’uccello raggiante che mi abita» in Torri: sono figure provvidenziali, sono abitanti del mondo della natura, che rappresenta un orizzonte salvifico, una possibilità di sfuggire al mondo umano, fatto di sopraffazioni e tormenti. Il suo universo fantastico si svuota pian piano di esseri umani, per riempirsi di animali e fiori.
Solitudine, gelosia, disuguaglianze, possesso, convenzioni sociali opprimenti: sono le istanze che abitano in filigrana la sua scrittura, in apparenza surreale e inusitata. La seconda raccolta, in particolare, mette in scena l’oppressione del maschile sul femminile, con una serie di fiabe presentate come giochi, in cui uomo e donna vengono trasfigurati in oggetti, animali, piante. Il femminile è vissuto come una condanna:
Carne
Alla tua carne floreale penso in lacrime, alla carne dell’allodola e alla polpa della pesca, a ogni carne che mantiene il suo destino come un segreto, dentro al succo o dentro al sangue.
o come una disgrazia, dove matrimonio e maternità sono amare incombenze, quasi fonte di ogni male. Il femminile non è inteso in senso biologico, ma nel senso del ruolo sociale riservato alle donne. Anche i rimandi alle fiabe e ai miti vengono usati per giocare con i patterns del racconto tradizionale, dimostrando come questo riproduca ruoli sociali che imbrigliano le donne; e la tradizione classica viene citata per irriderla, perché vista come un universo dove predomina il maschile. Così, in tutti i “giochi” tra uomo e donna, la rigida opposizione binaria appare come una realtà senza via d’uscita, mentre l’unica emancipazione possibile è il suo superamento, la sua sublimazione nel regno animale e vegetale, verso il quale l’io poetico prova un’istintiva e arcana solidarietà.
Le risposte
A ciò che in lacrime chiedono le fragole, risponderanno un giorno ridendo i melograni. Enigmi invernali su noci, su castagne, risolverà una primavera come niente, con i fiori. Parlerà un giorno novembre con marzo, risponderà dicembre a maggio. Ma io non sarò lì ad ascoltare. Sarò andata con le fragole di una primavera trascorsa, con le noci misteriose, le insondabili castagne.
L’altra possibilità di salvezza che traspare in queste prose risiede nella lingua. Le parole stesse, e il loro uso, sono salvifiche; e gli unici “giochi” in cui la donna risulta vincente, sono quelli in cui si fa parola. La donna così non appare come un’essenza, ma come un essere consapevole delle sue armi, che si costruisce per mezzo del discorso.
Tra le armi dell’autrice, c’è di sicuro l’uso spiazzante della lingua – che reinventa la tradizione surrealista, alimentandola però con il suo vissuto di donna – prodotto dal ritmo da filastrocca; dal gioco con i registri, che passano dal lirico al colloquiale, a volte quasi al burocratico, o usano il tono elegiaco applicandolo a oggetti di uso comune; dalla capacità di torcere espressioni cristallizzate risignificandole, con minuscole variazioni, che ne riattivano il senso letterale e le aprono a un’infinita polisemia possibile.
Così, il componimento finale si apre con la famigerata allocuzione ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, che forse, a chi ha fatto il classico, ricorderà innumerevoli versioni: a quei tempi ci veniva detto che quell’ἄνδρες non andava tradotto, bastava lasciare “O Ateniesi”. In questo caso, invece, l’autrice si rivolge a un consesso sociale composto, ci tiene a evidenziarlo, solo da maschi – come d’altronde l’antica democrazia ateniese – per una chiusa lapidaria che suona come un atto d’accusa:
Allocuzione
O uomini Ateniesi, Corinzi, Psichiatri e altri!
Mi avete menomata.
GIOVANNA ZANGRANDI (1910 - 1988)
Ai giovani ignari, infarciti di scolastiche storie di medievali guerre, re e date, si deve pure raccontare questa nostra storia di ieri, questa Resistenza miracolosamente nata in giorni di annientamento e subito cresciuta, divenuta vasta, pura e pulita nelle ore dell'azione, poi amaramente inquinata dopo la guerra da interessi, speculazioni, accuse e sporcizie (lo sapevamo anche noi semplici, che sarebbe accaduto). Ai giovani era dovere chiarire che sì, la Resistenza ebbe caratteri risorgimentali, ma anche una sua tipica nuova caratteristica: fu più vasta, spontanea, popolare, non sorse solo dai salotti, ma tanto e più dalle cucine, dai casolari, dalle fabbriche. Fu un movimento che sul filo antico della parola Libertà affiancò allora mirabilmente intellettuali e masse e deve tanto alle donne.
Nel 1963 la scrittrice nota come Giovanna Zangrandi pubblica “I giorni veri”, il diario della sua guerra partigiana tra le montagne del Cadore.
Lo scrive perché è “maledettamente stufa di tacere” e perché è fermamente convinta che “certe esperienze non devono andare perdute. Ed ora è tempo di parlare”.
Dal 25 aprile 1945, ovvero dalla Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, sono trascorsi quasi vent’anni. L’autrice, come tante compagne e compagni di lotta, li ha vissuti senza mai smettere per un attimo di riflettere sulla incredibile, ardua, difficile e dolorosa esperienza che è stata la lotta partigiana antifascista.
A guerra finita, Giovanna Zangrandi ha 35 anni e la sua riflessione si traduce nella messa in fila dei ricordi attraverso la scrittura: si dedica completamente alla stesura di racconti, romanzi e articoli in cui sono centrali la Resistenza e le storie delle persone che le hanno attraversato la vita. La tematica partigiana unisce, come un filo rosso, tutta la sua produzione.
È proprio nell’immediato dopoguerra che nasce Giovanna Zangrandi, lo pseudonimo letterario adottato dalla partigiana Alma Bevilacqua, meglio nota agli amici e compagni con il suo nome di battaglia, Anna. Giovanna Zangrandi, Alma Bevilacqua, Anna, Gianna, Anna Z.: tutti nomi che designano diverse fasi della vita della nostra protagonista e la sua maturazione esistenziale, politica e umana.
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