Mis(S)conosciute - La newsletter #33: Voci dalla Palestina: Suad Amiry, Ahdaf Soueif e il PalFest
Scrittrici (e altre cose) tra parentesi
“Il problema della pace è al centro oggi dei miei interessi, delle mie preoccupazioni, delle mie angosce: come essere umano, come donna, come militante, come artista. […] Ho maturato posizioni pacifiste radicalmente non violente, che riguardano quindi non solo il mio atteggiamento verso le guerre ma anche verso quelle passate: per me tutte le guerre sono e sono state come la guerra di Troia, combattute per un fantasma”
Fabrizia Ramondino
“La barbarie nazista fa sorgere in noi un'identica barbarie che procederebbe con gli stessi metodi, se noi avessimo la possibilità di agire oggi come vorremmo. Dobbiamo respingere interiormente questa inciviltà: non possiamo coltivare in noi quell'odio perché altrimenti il mondo non uscirà di un solo passo dalla melma."
Etty Hillesum
“La guerra è una cosa terribile. Io per questo mi occupo di pace. Vorrei davvero che non si dovessero affrontare più queste cose. Che nessuna ragazza o ragazzo dovessero più imbracciare delle armi, portar delle bombe, fare dei piani di distruzione.”
Teresa Mattei
Da due anni e mezzo, diligentemente, ogni 8 del mese inviamo la newsletter di Mis(S)conosciute: uno spazio in cui riusciamo a dare una cadenza temporale e una continuità al nostro progetto di riscoperta di autrici troppo poco note del ‘900 che portiamo avanti dal 2019.
Da ben 33 numeri nella newsletter parliamo di autrici, tracciamo le loro biografie e, soprattutto, invitiamo sempre alla lettura dei loro libri: cerchiamo di essere un ponte che congiunge l’opera delle scrittrici a tutte le lettrici e i lettori che non hanno ancora avuto la possibilità di incontrarle sul loro cammino.
Non ci occupiamo strettamente di politica e attualità, qui parliamo di letteratura, questo è vero, eppure quotidianamente, sui social e durante gli incontri dal vivo, nelle cose che scriviamo e che condividiamo, parliamo soprattutto di un argomento molto politico e che travalica i limiti della ricerca letteraria in senso stretto: l’ampliamento del canone letterario e la rivalutazione della voce silenziata delle donne (rappresentanti della categoria dell’ “Altro” per eccellenza) in letteratura e, di conseguenza, nell’intero sistema sociale, economico e politico.
Quindi, anche quando partiamo da una “semplice” folgorazione letteraria, le storie delle scrittrici che raccontiamo hanno sempre un peso politico. Facciamo solo qualche esempio: come potremmo raccontare le autrici che nelle loro opere hanno riflettuto sul senso e lo scopo della Resistenza senza evidenziarne l'apporto attivo nella lotta partigiana durante la seconda guerra mondiale? Come potremmo parlare della scrittrice anglo-egiziana Ahdaf Soueif senza considerare il suo attivismo civile e politico e, parallelamente, la storia coloniale britannica? Come potremmo dissociare il teatro di Sarah Kane dalla realtà del mondo della fine degli anni ‘90, insanguinato da un’altra terribile guerra europea, quella nei Balcani? Come potremmo soffermarci sulla narrativa di Fabrizia Ramondino senza partire dal suo impegno sociale e politico nella Napoli degli anni ‘50 e ‘60?
Dare voce a chi non ce l’ha e prestare ascolto a chi è stato sempre messo a tacere, ampliare lo sguardo e cambiare punto di vista nella narrazione e valutazione dei fatti sono i principi cardine tanto della letteratura delle “nostre” scrittrici quanto degli studi di genere e della ricerca portata avanti dagli studi post-coloniali, ovvero quel complesso di discipline che analizza, indaga e decostruisce i movimenti coloniali e le influenze che hanno avuto, e continuano ad avere, sui territori colonizzati e, di rimando, sulla madre patria.
Ma perché parliamo di colonizzazione, decolonizzazione e postcolonialismo?
Sono concetti che possono sembrare riferiti a un’epoca passata o a una realtà sociopolitica ormai estinta, eppure sono categorie più attuali che mai, che hanno plasmato il mondo in cui viviamo e che sono necessarie per decifrare i fatti, terribili, che stanno accadendo in Palestina. Dal 7 ottobre 2023 il conflitto israelo-palestinese, argomento geopolitico che ciclicamente torna a occupare in modo preponderante il dibattito dell’opinione pubblica da almeno 75 anni a questa parte, ha ripreso a dominare la scena dell’informazione, a invadere le prime pagine dei giornali, i salotti tv e il flusso a getto continuo delle immagini che senza sosta e confusamente scorrono sugli schermi dei nostri cellulari, mettendoci davanti al dolore degli altri, per citare il titolo di un importante saggio di Susan Sontag. Questa inondazione di notizie genera inevitabilmente confusione in chi non mastica la materia e rischia di ridurre a un mero scontro tra tifoserie il dibattito su una guerra che, stando alla narrazione dominante, sembra essere iniziata un mese fa.
Il conflitto israelo-palestinese, la tragedia politica e umanitaria del popolo palestinese cui stiamo assistendo inermi da giorni (ma potremmo dire da mesi, anni, decenni) è solo il più recente e tragico capitolo di una storia che in Medioriente va avanti da più di un secolo, da quando cioè le potenze imperiali europee hanno iniziato il processo di colonizzazione dei paesi arabi, innestandosi sui territori dell’impero ottomano in decadenza tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo.
La nostra opinione in merito a ciò che sta accadendo nella striscia di Gaza e in Cisgiordania, coincide con quella di una scrittrice, attivista politica ed ex partigiana di cui parliamo spesso. Si chiama Joyce Lussu e il 16 maggio 1991 durante un convegno dal titolo “Curdi e Palestinesi: due popoli senza terra” ha detto:
Si tratta di crimini contro l’umanità: non è una cosa che si capisce un po’ alla volta. Sono dei crimini e basta. E contro questo bisogna dire no, ma bisogna dire no con forza, andando veramente al nocciolo della questione e non navigando sempre nelle periferie dei problemi, marginalmente, su quello che tocca maggiormente l'immaginazione: l’umanità e le emozioni della gente. Bisogna anche pensare solidamente. Ossia essere capaci di progetti, di proporre, di fare controproposte contro queste logiche e questi andazzi. Altrimenti non facciamo proprio niente. Le cose non è che sono molto complicate. In fondo tutto è abbastanza chiaro: che tipo di sistema economico abbiamo e perché? Abbiamo perso le cattive abitudini del colonialismo? Ci siamo veramente emendati da tutti i delitti contro l'umanità compiuti da quando abbiamo cominciato il nostro dominio sul mondo all’inizio del 1500? Abbiamo cambiato rotta? Non direi. Si tratta di scegliere l’essenza del problema e non le cose marginali. Il che costa lo stesso tempo: perché se tu capisci il nocciolo della questione, non è che ti ci vuole più tempo che se ti fermi a capire i problemi marginali, il tempo è lo stesso ma almeno hai capito qualche cosa.”
Erano gli anni della prima Intifada - l’insurrezione del popolo palestinese, cacciato dalle proprie case e relegato nei campi profughi nel 1967, dopo la cosiddetta Guerra dei sei giorni, contro il dominio sionista nei territori occupati da Israele - iniziata nel 1987 e che si concluse provvisoriamente con gli accordi di Oslo del 1993.
Non è questa la sede per tracciare una cronologia della storia del colonialismo europeo nei paesi arabi, della nascita del movimento sionista e del progetto coloniale d’insediamento che ha portato alla nascita dello stato di Israele in Palestina e alla progressiva perdita, da parte dei palestinesi della propria terra, delle proprie case e della propria libertà. Né possiamo elencare tutti i conflitti, accordi e trattati di pace che si sono susseguiti dall’inizio del ‘900 in poi per far sì che l’appropriazione delle terre dei palestinesi andasse a buon fine per i coloni sionisti, o soffermarci sulla ghettizzazione dei palestinesi nei campi profughi e della nascita dei partiti politici palestinesi come Fatah e Hamas; né vogliamo ora imbarcarci in un’analisi critica della storia del colonialismo europeo nel mondo (tra i link nella sezione Miscellanea trovate diversi consigli di lettura, fondamentali, su questi argomenti).
Però una cosa ci teniamo a sottolinearla: non è possibile comprendere le motivazioni e le radici di un conflitto così antico e articolato se si conosce solo una parte della storia, di cui si fa arbitrariamente coincidere l’inizio con i terrificanti atti terroristici di Hamas contro il popolo israeliano del 7 ottobre scorso. Se la narrazione dominante ci propone solo una versione dei fatti, poniamoci delle domande che ci aiutino a mettere a fuoco la prospettiva storica e cerchiamo le risposte laddove le storie vengono tramandate, dove la testimonianza, la memoria e il ricordo trovano voce: nei libri, nella letteratura, nella voce delle scrittrici e degli scrittori che conservano la memoria dell’altra parte della storia.
È importante tenere a mente questo punto non solo oggi, quando parliamo del popolo palestinese e ci uniamo alle voci delle piazze che chiedono lo stop immediato alle bombe e ai crimini di guerra che attualmente, da un mese e senza sosta, lo Stato Israeliano sta perpetrando ai danni della popolazione civile relegata nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, ma ogni volta che si prende in considerazione la storia dell’ “Altro” in tutta la sua complessità: pensiamo ai nativi americani, alle popolazioni indigene australiane, alla tratta degli schiavi africani nelle Americhe.
Qualche settimana fa abbiamo ascoltato Jamaica Kincaid, una delle più importanti scrittrici contemporanee, parlare di colonialismo e post-colonialismo durante un incontro alla Triennale di Milano. Scrittrice caraibica, discendente da generazioni di schiavi e nativi isolani, frutto lei stessa con la sua persona e la sua storia di famiglia delle violente politiche coloniali britanniche nelle Americhe, parlando dell’importanza della memoria per evitare che le violenze e i soprusi di un popolo ai danni di un altro si ripetano, ha detto:
“Forgetting is out of the question. If you can stop doing the things that brought to the present situation, it would be a thing”.
Non viviamo ancora in un mondo in cui l’uso della violenza, dello sterminio e dell’assoggettamento dei popoli abbiano smesso di essere strumenti utilizzati dal potere (maschile) dominante per i propri scopi. Ma visto che dimenticare è fuori questione e la memoria e la conoscenza sono ancora il punto di partenza fondamentale per cercare di interpretare il presente, dopo questa lunga introduzione nelle prossime rubriche troverete una serie di consigli di lettura che possono aiutare a mettere a fuoco tutta la complessità di ciò che sta accadendo in Palestina e a dare voce al popolo palestinese che da 75 anni si oppone a una forma repressiva di governo coloniale ed esige risposte non solo umanitarie ma anche e soprattutto politiche che possano soddisfare il diritto alla libertà, alla dignità e all’autodeterminazione dei popoli.
Come abbiamo fatto sulle nostre pagine social nel maggio del 2021, quando si riaccese il conflitto nel quartiere palestinese di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est, diamo spazio alle storie delle scrittrici e degli scrittori palestinesi che, dalla Nakba (la Catastrofe del 1948, l’espulsione di massa dei palestinesi dai territori occupati da Israele) in poi, hanno scritto e raccontato in vari modi e forme le loro vite in esilio e nei territori occupati.
Precisazione inutile ma necessaria, visto il grado di manicheismo a cui è giunto il “dibattito” pubblico sulla questione: affermare quanto abbiamo dichiarato non implica nel modo più assoluto antisemitismo o ostilità verso il popolo ebraico, di cui vaste frangie, in tutto il mondo, hanno protestato contro le scellerate scelte del Primo Ministro Netanyahu, anzi, semmai tutto il contrario. Affermare quanto abbiamo affermato significa comprendere che senza giustizia non potrà mai esserci pace per nessuno.
15 novembre [DAL VIVO] - MILANO - Centro Internazionale di Brera, ore 17:00
Mis(S)conosciute partecipa con Valeria Palumbo, Johnny Bertolio e Donatella Martini al dibattito Scrittrici: tutta un’altra storia a cura di Donne In Quota, nell’ambito di Book City Milano.
Il Centro Internazionale di Brera è in via Marco Formentini, 10.
16 novembre [DAL VIVO] - MILANO - Bibliomediateca della Casa delle Donne, ore 19:00
Presentiamo il progetto Mis(S)conosciute con Sara Filippelli e Giulia Tenenti con cui parleremo delle ragioni dell’oblio delle autrici e della necessità di ripensare il canone. La Casa delle donne di Milano è in via Marsala, 10.
AL PICCOLO TEATRO CON MIS(S)CONOSCIUTE (E UNO SCONTO!)
Dal 23 novembre al 21 dicembre è in scena al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano Trilogia della città di K., un progetto di Federica Fracassi e Fanny & Alexander tratto dal libro omonimo di Agota Kristóf con adattamento e drammaturgia di Chiara Lagani, regia, scene, luci, video di Luigi De Angelis e con in scena un pugno di attori straordinari: Federica Fracassi nel ruolo di Agota Kristóf e Andrea Argentieri, Consuelo Battiston, Alessandro Berti, Lorenzo Gleijeses.
Lo spettacolo compie l’impresa non facile di tradurre sulle tavole del palcoscenico il romanzo di Kristóf (Csikvánd, 1935 - Neuchâtel, 2011), che esplora le radici del male e le sua articolazioni morali e materiali, sullo sfondo di una guerra indeterminata ma violentissima che tiene l’umanità e la sua possibilità di pensiero, di espressione e di esistenza perennemente sotto scacco e in cui la doppiezza è sempre in agguato per mistificare, tradire e forse anche dimenticare il dolore inflitto e patito.
L’autrice e drammaturga ungherese espiantata per lungo tempo in Svizzera ed esiliata nei limiti angusti di una lingua non sua - quella francese, che non acquisisce mai pienamente al punto da autodefinirsi “analfabeta” - ha condensato nel suo capolavoro le lacerazioni della Storia che le è capitato di vivere con asciuttezza folgorante:
«Non si può spiegare tutto, non fa bene.
Sull’esilio, sulla morte, sul dolore non c'è molto da dire.
Sono fatti. Tutto qui.»
Proprio perché siamo felici ed impazienti di assistere alla “trasformazione” teatrale di questo romanzo epocale ad opera di due grandi artiste e intellettuali contemporanee, Chiara Lagani e Federica Fracassi, che stimiamo profondamente, con la collaborazione del Piccolo Teatro vogliamo offrire a chi ci legge la possibilità di andare a teatro a vedere questo lavoro approfittando di uno sconto del 50% dedicato alla community di MisSconosciute.
A questo link potete quindi acquistare fino a un massimo di 4 biglietti a persona a prezzo ridotto! La promozione è valida esclusivamente per gli acquisti online e sarà disponibile fino al 25 novembre (si possono acquistare biglietti per tutte le date dello spettacolo fino al 21 dicembre incluso).
Speriamo che tant* di voi possano raccogliere questo invito a teatro e, se ci andrete, fateci sapere le vostre impressioni!
Il 18 novembre alle 18:00 a Pieve di Cadore, presso il Salone della Magnifica Comunità di Cadore, viene presentata in prima nazionale la biografia Lo specchio verde. I libri e le montagne di Giovanna Zangrandi di Anna Lina Molteni, pubblicato da Monte Rosa edizioni.
Could we organise a small group of writers to travel to Palestine, experience the situation there for themselves and do literary events that Palestinians want?
Dal 2008 in Palestina esiste un festival letterario diffuso. Si chiama Palestine Festival of Literature, meglio noto con il nickname PalFest, ed è un’iniziativa culturale impegnata nella creazione di linguaggi e idee per combattere il colonialismo nel 21esimo secolo: combatte con le armi della cultura e della letteratura l’occupazione israeliana, fisica e mentale, della Palestina. I cittadini palestinesi che vivono nei territori occupati e nella striscia di Gaza non hanno libertà di movimento. Per attraversare le diverse zone sono necessari carte d’identità specifiche, svariati permessi e un viaggio di appena 30 km può trasformarsi in un’esperienza estenuante e lunga ore, per lo più trascorse in attesa ai checkpoint militari dell’esercito israeliano. Il PalFest, allora, cerca di aggirare l’ostacolo e porta letterate e intellettuali da tutto il mondo in Palestina: da 15 anni dà vita ogni anno a un festival itinerante tra le diverse città palestinesi. L’iniziativa tenta di infrangere l’assedio culturale imposto dall’occupazione militare israeliana tessendo fili artistici con il resto del mondo, per riaffermare, usando le parole di Edward Said , “il potere della cultura sulla cultura del potere”.
Il PalFest nasce come atto di solidarietà culturale verso il popolo palestinese ed esiste grazie all’impegno e alla dedizione della sua fondatrice, una scrittrice a cui siamo molto affezionate, perché a lei è dedicato l’episodio che ha dato il via al podcast e progetto culturale di Mis(S)conosciute. Si chiama Ahdaf Soueif e, se siete qui da un po’, sicuramente è un nome che avete già incontrato.
Nel dicembre del 2000, Soueif è nei territori occupati del West Bank. Da due mesi è scoppiata la seconda Intifada e il Guardian, il giornale per cui scrive, le ha chiesto di scrivere un reportage dai territori occupati.
È la sua prima volta in Palestina. A Gerusalemme, Ahdaf Soueif tocca con mano la vita quotidiana dei palestinesi, vive i piccoli e grandi problemi che le persone devono affrontare per portare a termine le più banali incombenze quotidiane, sperimenta la routine delle attese ai checkpoint per spostarsi da un punto all’altro di una stessa città, l’ansia del coprifuoco, i piccoli scontri quotidiani e gli invalicabili muri di incomprensione tra palestinesi e israeliani.
In Palestine almost every situation you can be in is layered. Nothing, not a single thing, is free of the occupation, its instruments, its outcomes. In the same gaze you take in the row of gracious early-twentieth-century Palestinian houses, the Palestinian refugee camp set up in 1948, now rooted and solid, and the young Israeli settlement bristling on top of the hill, waiting. You can see the stony terraces and the centuries that coaxed them into fruitfulness, the Israeli wall severing them from their farmers, and the settlement road cutting through the sky above them, its supports digging deep into their soil.
Nel 2003, a tre anni di distanza da quel primo viaggio, Soueif torna in Palestina per un follow-up del suo reportage per il giornale inglese. Il paesaggio dei territori occupati è cambiato: sono spuntati nuovi insediamenti di coloni ed è iniziata la costruzione del muro di separazione. A Ramallah, un pomeriggio di ottobre, Soueif viene invitata a leggere dei brani dei suoi romanzi e a parlare di letteratura in un centro culturale locale. Accorrono tantissime persone, desiderose di trascorrere una serata normale durante la quale parlare solo di libri e cultura, anche se fuori esplodono le bombe. Dopo qualche giorno, viene invitata all’università di Nablus e nonostante la città sia da tempo completamente sotto assedio, viene organizzato un incontro a cui partecipano numerose persone assetate di cultura e normalità.
On my first visit, in 2000, the thought had kept coming to me that I wished people - lots and lots of people - could actually see what I was seeing. From 2003 I had a second wish: that when a Palestinian audience ignored explosions for the sake of a literary event, when a university took the trouble to smuggle a writer through a military checkpoint, they would get more for their efforts than just me. The Palestine Festival of Literature made both wishes come true.
Da quei pomeriggi d’ottobre del 2003 sono trascorsi 20 anni e il PalFest, grazie all’impegno di Soueif, della sua famiglia (il direttore del PalFest attualmente è il regista e scrittore Omar Robert Hamilton, figlio di Soueif) e delle tante amiche e amici disseminati in tutto il mondo, non si è fermato: continua a dare spazio a scrittrici e scrittori locali e ad alimentare il fermento culturale che inevitabilmente nasce dagli scambi tra ospiti internazionali e intellettuali e abitanti dei territori occupati.
Dal 2008 al 2019, il festival ha portato persone da tutto il mondo in Palestina ed è stato appoggiato e sostenuto da importanti intellettuali e artisti come, per citarne solo alcuni, il palestinese Mahmoud Darwish, il drammaturgo britannico Harold Pinter, il poeta nigeriano Chinua Achebe, l’attrice e sceneggiatrice Emma Thompson, il premio Nobel Abdulrazak Gurnah. Dopo una pausa forzata dovuta al Covid, nel maggio 2023 si è tenuta una nuova edizione del festival itinerante a Ramallah, Nabih Saleh, Gerusalemme, Al-Khalil (Hebron), Haifa. Nelle ultime settimane ci sono stati appuntamenti speciali del PalFest a New York (But We Must Speak: On Palestine and the Mandates of Conscience) e Londra (Nakba - A Century of Resistance & Solidarity) per esprimere solidarietà al popolo palestinese e per riflettere collettivamente sulle ignobili violenze in atto partendo dal common ground della letteratura, della cultura e del rispetto dei diritti di tutti gli esseri umani, nessuno escluso.
Tra le autrici che hanno aiutato Soueif a mettere meglio a fuoco la questione palestinese attraverso la loro testimonianza e scrittura, molte hanno anche preso parte attivamente al PalFest. Sono scrittrici palestinesi sicuramente troppo poco note su questa sponda del Mediterraneo, i cui scritti e le cui impressioni sono poi stati raccolti da Soueif in due diverse antologie: Mezzaterra: fragments from the common ground del 2004 e This is not a border : reportage & reflection from the Palestine Festival of Literature, la raccolta pubblicata nel 2018 in occasione del decennale del festival.
In questa newsletter e in quelle a venire vi presentiamo alcune di loro e vi consigliamo uno o più titoli disponibili in inglese e/o italiano.
Palestine is the body of all our stories, the place where we begin and return
Susan Abulhawa
Suad Amiry (1951)
Una donna palestinese di nome Suad Amiry è, come ogni essere umano, molte cose diverse al contempo: è un’architetta e ha fondato e dirige dal 1991 il Riwaq Center for Architectural Conservation di Ramallah; è un’attivista politica ed è stata membro della delegazione palestinese incaricata di condurre le trattative bilaterali di pace israelo-palestinesi di Washington D.C. dal 1991 al 1993, oltre a essere stata vice-ministro della Cultura nel primo governo dell’Autorità nazionale palestinese.
Poi, per un puro caso, a un certo punto della sua vita è anche diventata una delle più importanti scrittrici palestinesi contemporanee proprio a causa dell’occupazione sionista della Palestina.
Nasce a Damasco nel 1951: la famiglia si è trasferita in Siria dopo il 1948, quando il padre, palestinese di Jaffa, viene cacciato dalla sua casa e diventa un rifugiato. Suad cresce poi ad Amman, in Giordania; studia architettura all’Università di Beirut e all’Università del Michigan e poi a trent’anni, nel 1981, dopo una vita trascorsa in esilio, decide di tornare a vivere nei territori occupati - dove sua madre ha giurato che non avrebbe mai più messo piede fino a quando non sarebbe finita l’occupazione - e si stabilisce a Ramallah, dove vive tutt’ora. Insegna all’università di Birzeit, si innamora e nel 1981 sposa Salim. A questo punto inizia un calvario burocratico che dura 7 anni: per ottenere un permesso di residenza e poter vivere nel West Bank con il marito, ogni mese, dall’81 all’88, Suad si reca dalle autorità israeliane per negoziare i documenti. Questa è una delle storie raccontate nel suo secondo romanzo Se questa è vita.
Nella primavera del 2002 l’esercito israeliano mette sotto coprifuoco tutte le principali città della Cisgiordania. Ramallah viene messa sotto coprifuoco per 34 giorni ininterrotti. Durante quel periodo, Suad è sola perché il marito Salim è all’estero e la suocera di 91 anni, Umm Salim, che vive sola in un altro quartiere della città, resta isolata. Suad si fa coraggio e, sfidando il coprifuoco, va a salvarla e la porta in casa con sé. Inizia così una normale relazione tra nuora-suocera, complicata ancor di più dall’occupazione israeliana. Per sopravvivere alla convivenza forzata, Suad inizia a tenere una sorta di diario notturno epistolare, inviando via mail i racconti della sua quotidianità alle amiche e agli amici sparsi in giro per il mondo. Alcuni di loro ne restano folgorati e pensano che tutti debbano leggere il diario dell’occupazione - dentro e fuori casa - subita da Suad e ne propongono la pubblicazione a diversi editori. Tra loro c’è la traduttrice e curatrice Maria Nadotti, che propone il manoscritto a Feltrinelli. Il diario esce per la prima volta in Italia nel 2003 con il titolo “Sharon e mia suocera”. Suad Amiry racconta la sua vita sotto occupazione - dove non c’è alcuna separazione tra la vita di ogni giorno e la situazione politica - in modo inedito, da un punto di vista completamente nuovo: sottolineandone le assurdità e le contraddizioni con ironia e disincanto. La scrittura di Amiry al tempo stesso normalizza l’essere palestinese: lei non è più solo una vittima costretta a vivere in un regime d’aparheid surreale, ma è anche una persona qualsiasi alle prese con problemi che potrebbe avere chiunque in una qualsiasi altra parte del mondo.
Suad Amiry è tra le persone che hanno aiutato il PalFest a muovere i primi passi: ha fatto parte per diverso tempo del comitato organizzativo e un suo testo intitolato Privatizing Allenby, fa parte della raccolta This is Not a Border. Nel 2017 ha curato un numero speciale di Internazionale dedicato alla letteratura araba che raccoglie anche le storie delle palestinesi Adania Shibli e Susan Abulhawa. Le sue opere in italiano sono edite da Feltrinelli e Mondadori.
Il 22 marzo del 2006, a due mesi dalla vittoria del partito di Hamas alle elezioni palestinesi, la scrittrice e architetta Suad Amiry è a Milano, in Italia, per presentare i suoi libri “Sharon e mia suocera” e “Se questa è vita”, editi da Feltrinelli. Con lei c’è la sua traduttrice, Maria Nadotti, e insieme, in un dialogo a metà tra inglese e italiano, ripercorrono le tappe dei due libri e della vita stessa dell’autrice e del suo popolo che riempiono le pagine dei due volumi. Il discorso di Amiry merita di essere ascoltato, poiché traccia in maniera molto chiara la storia della Palestina dal ‘48 al 2006 che ha portato all’escalation di violenza cui stiamo assistendo attualmente.
Nel 2007 Amiry torna in Italia per presentare un nuovo libro, Niente sesso in città (Feltrinelli, 2007), un libro su 10 donne della generazione dell’OLP ispirato dalla vittoria del movimento politico di Hamas, così come i romanzi precedenti erano stati ispirati dalla politica del leader israeliano Sharon. Come nel 2006, l’evento diventa un’occasione per riflettere e cercare di spiegare la situazione della Palestina: vi consigliamo di ritagliarvi un paio d’ore per ascoltarla.
Qui di seguito abbiamo trascritto e tradotto alcuni brani delle parole di Suad Amiry del 2006:
22 marzo 2006 , Milano
La mia natura è portata all’humor, eppure vista l’attuale situazione (l’elezione di Hamas del 25 gennaio 2006) in questo momento neppure io riesco a scherzare. La situazione è cupissima e riguarda tre livelli di discorso: il livello internazionale, il rapporto con Israele e ciò che sta succedendo tra i palestinesi. L’occupazione militare del proprio paese e l’indifferenza internazionale creano una situazione intollerabile. Ci si abitua a sentirsi sconfitti, umiliati, impediti nei movimenti, ci si abitua a non avere alcun diritto. Penso che il valore della giustizia sia una parte intrinseca della natura umana. Noi palestinesi, però, ci siamo abituati a pensare che non esista giustizia su questa terra.
Con l’elezione di Hamas, tutto quello per cui ho vissuto e per cui mi sono impegnata, mi è crollato addosso. Per me, una donna che vive nel mondo arabo, alla sensazione di disfatta a cui mi ero abituata con l’occupazione israeliana, si è andata sommando un’altra sensazione di sconfitta sul livello sociale: come donna, mi sono sentita sconfitta rispetto alle cose per cui avevo lottato e a cui avevo creduto per tutta la vita. [...] Ogni persona è stratificata, è composta da diversi strati di identità. Io sono palestinese, musulmana, donna, araba, architetto, scrittrice, attivista politica, mediterranea, ecc. Ma cosa succede quando uno degli strati che ti compone viene messo sotto attacco? Quando l’identità palestinese viene minacciata, improvvisamente quella parte di me prende il sopravvento e allora io mi sento fortemente palestinese. Faccio mia un’unica identità. Se ci fosse giustizia, se fossimo liberi, se avessimo uno stato, io non mi sentierei costretta a dichiararmi, innanzitutto, palestinese.
Hamas è il prodotto della politica combinata di Bush e Sharon, che tiene sotto scacco non solo la Palestina ma anche altri pezzi del mondo arabo. È una politica che ha contribuito moltissimo alla formulazione del fondamentalismo islamico nel mondo arabo. Penso che nessuno abbia contribuito alla nascita di Hamas tanto quanto ha fatto Israele. La nostra storia, la storia dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) e di Hamas, è esattamente parallela alla storia degli americani con Osama Bin Laden. Come Bin Laden fu un prodotto degli Stati Uniti, a cui serviva un alleato che combattesse il comunismo sovietico, così Hamas è un prodotto di Israele contro l’OLP e la Palestina. La questione di Hamas è molto complessa ed è stata complicata ulteriormente dalla guerra in Iraq, che ha contribuito in modo molto strano alla vittoria del movimento. La popolazione palestinese ha considerato la guerra degli USA contro l’Iraq come un tale atto di ingiustizia da essere spinta verso una reazione anche irrazionale e quindi verso un irrigidimento di tipo religioso. La vittoria di Hamas è, quindi, anche in parte il contributo della stupida politica internazionale occidentale che divide il mondo in buoni e cattivi, come abbiamo visto in Iraq e come vediamo accadere in Palestina. [...]
Bisogna ricordare alcune cose della storia per capire cosa sta succedendo. [...]
Nel 1948, 850 mila palestinesi sono stati cacciati dalla loro terra e i loro villaggi sono stati distrutti. Ci sono voluti tanti anni perché i palestinesi accettassero l’idea di questa perdita, la elaborassero e arrivassero ad accettare l’idea dei due stati. Nel 1988, a distanza di soli 40 anni, i palestinesi, tramite l’OLP, accettano formalmente la nascita dei due stati lungo la linea storica del confine del 1967, la cosiddetta linea verde. È questo che accettano i palestinesi: lo stato d’Israele avrebbe occupato il 78% della Palestina storica, e i palestinesi il restante 22%. È una grossa concessione, da qualsiasi punto di vista è una grossa accettazione dei fatti da parte dei palestinesi. Posso testimoniarlo: la mia famiglia è di Jaffa e io so benissimo dove è la casa di mio padre. È ancora lì. Non è facile per me accettare che diventi parte dello stato di Israele, ma nel 1988 i palestinesi hanno accettato il compromesso storico della soluzione a due stati. [...] Non è poca cosa anche perché nel frattempo non era successo lo stesso dall’altra parte. Arriviamo agli accordi di Oslo: nascono da una grande speranza e da una grande illusione. Si pensa che ci possa essere una riconciliazione storica. Dovrebbe finalmente formalizzarsi lo stato della Palestina. Eppure questo non è successo. Dal 1993 al 2006, cioè a oggi, Israele non ha riconosciuto l’esistenza dello Stato della Palestina e gli israeliani non sono mai riusciti a riconoscere i palestinesi come pari. Tutti dicono che la storia del medio oriente è complessa e difficile da sbrogliare: no. È molto semplice. Si tratta di pronunciare solo una sola parola: “terra”. Un pezzo di terra. Gli israeliani continuano a dire che vogliono la pace eppure sistematicamente continuano, da 30 anni, a fare lavoro di erosione: che vuol dire costruire nuove colonie, confiscare terre, distruggere case, sradicare alberi. Questo è il problema. [...] Se si vuole arrivare alla pace, bisogna credere che la persona di fronte a te sia tuo pari o quanto meno riconoscerlo come essere umano. Israele non ha raggiunto questo punto. Dal ‘91 al ‘93 ho fatto parte delle delegazioni miste israelo palestinesi a Washington e penso che Israele voglia solo il pezzo di terra, senza persone. Per questo ci stanno comprimendo il più possibile in zone limitate creando ciò che vediamo: uno stato che assomiglia a una forma di formaggio svizzero.
[...] Tornando ad Hamas: nel mio ufficio sono la più anziana, con me lavorano tante persone giovani e nessuno di loro è Hamas, nessuno di loro è un fondamentalista. Però si sono trovati di fronte a una situazione molto chiara: tutto quello che i trattati di Oslo avevano promesso, non si è realizzato. Israele non sta facendo assolutamente niente per rispettarli. Le Nazioni Unite, gli Usa e l’Europa, nemmeno. In Palestina la gente ha perso la speranza. E quando si perde la speranza non se ne esce più. Oggi in Palestina il 60-70% della popolazione adulta è disoccupata. Però rappresentiamo la più grossa fetta di mercato per Israele. Noi, i disoccupati, consumiamo i prodotti di Israele perché ci impediscono di essere autosufficienti. Se nessuno presta ascolto in una situazione di questo genere, se tutto questo succede nell'impunità assoluta, nella totale indifferenza internazionale, che cosa fai? Ci si comincia a rivolgere a Dio. Sfortunatamente tutta questa storia di Dio è diventata per tante persone una soluzione, quando non si hanno chance di avere una vita degna sulla terra. Il problema però non è la religione in sé: dopotutto le religioni sono solo un insieme di valori che le persone seguono per vivere meglio. Il problema è quando le religioni vengono politicizzate.
Se non si trovano delle opzioni realmente di pace, la conseguenza non può essere che una vera e propria escalation di fondamentalismo. E ci sono tanti fondamentalismi nel mondo: per gli ebrei, per i cristiani e per i musulmani. Dobbiamo ricordarcene.
DA LEGGERE
Il progetto Palestine Writes, festival di letteratura palestinese in Nord America presieduto dalla scrittrice palestinese Susan Abulhewa, comprende anche un sito web ricco di informazioni e pagine interattive per approfondire la storia millenaria della Palestina.
La lettera di DOMINIQUE EDDÉ, scrittrice israeliana residente in Libano, indirizzata al presidente Emmanuel Macron.
Storia e approfondimenti geopolitici
EBOOK GRATUITI
Mezzaterra di Ahdaf Soueif
This is not a border: reportage & reflection from the Palestine Festival of Literature a cura di Ahdaf Soueif
Dieci miti su Israele di Ilan Pappé, Tamu Edizioni
La questione palestinese di Edward Said
Orientalismo di Edward Said
Boycott, Divestment, Sanctions di Omar Barghouti, Haymarket Books
Palestine: A Socialist Introduction a cura di Sumaya Awad e Brian Bean, Haymarket Books
Blaming the Victims: Spurious Scholarship and the Palestinian Question a cura di Edward Said e Christopher Hitchens, Verso Books
The Case for Sanctions Against Israel, Verso books
Narrativa
EBOOK GRATUITI
Light in Gaza Writings Born of Fire a cura di Jehad Abusalim, Jennifer Bing, and Mike Merryman-Lotze, Haymarket Books
9 racconti di scrittrici palestinesi in traduzione inglese (Adania Shibli, Maya Abu Al-Hayat, Samira Azzam, Abeer Khshiboon, Sheikha Hussein Helawy, Suheir Abu Oksa Daoud, Asmaa Alghoul, Nayrouz Qarmout, Liana Badr)
ALTRI CONSIGLI DI LETTURA
Palestina - The Passenger, Iperborea
This is not a border - Reportage & Reflection from the Palestine Festival of Literature
La nuova edizione del saggio Hamas di Paola Caridi
DA ASCOLTARE
Paola Caridi su Hamas nel podcast Il mondo di Internazionale
Nella rubrica dedicata ai podcast de Il mondo di Internazionale, Jonathan Zenti recensisce l’episodio del podcast di Mis(S)conosciute ft. Protagoniste che abbiamo dedicato alla giornalista e scrittrice Tina Merlin
La montagna cantata è un podcast dedicato alla musica popolare sull’arco alpino. Dalla Valsesia alla Val d’Ossola, dalle Valli di Lanzo alla val d’Aosta, ogni puntata ci porterà a scoprire e riscoprire i canti e le sonorità delle montagne, tra presente e passato.
FETUS-QUANDO SI NASCE, un podcast di Ivan Carozzi.
DA VEDERE
L’intervista alla giornalista israeliana Amira Hass di Democrcy Now. Parte 1 e Parte 2.
Il Palestinian Museum Digital Archive è un archivio digitale nato per raccogliere e salvare da ogni genere di evento documenti dei palestinesi da tutto il mondo: carte d’identità, documenti ufficiali, lettere, diari, manoscritti, foto, video, mappe e registrazioni audio.
PalestineRemix è un progetto di AlJazeera che raccoglie numerosi documentari sulla questione palestinese. Qui un approfondimento sulla Nakba.
Diverse piattaforme video, come il Palestine Film Institute, hanno messo a disposizione, gratuitamente, numerosi film di registe e registi palestinesi e/o ambientati in Palestina. A questo link è disponibile una directory dei film palestinesi disponibili online organizzata cronologicamente. Ne abbiamo visti alcuni e vi consigliamo i seguenti:
The Silent Protest: Jerusalem 1929 (2019) di Mahasen Nasser-Eldin (cortometraggio di 20 min con sottotitoli inglese)
One more Jump (2019) di Emanuele Gerosa
The Present (2020) di Farah Nabulsi (un cortometraggio di 25 minuti in arabo senza sottotitoli ma facile da seguire anche senza conoscere la lingua)
In Vitro (2019) di Larissa Sansour e Søren Lind (sottotitoli in inglese)
When I Saw You (2012) di Annemarie Jacir (sottotitoli in inglese)
Yom al-Ard (2019) di Monica Maurer ( cortometraggio di 15 minuti in inglese con sottotitoli in italiano)
Naila and the Uprising (2017) di Julia Bacha (sottotitoli in inglese)
Electrical Gaza (2015) di Rosalind Nashashibi (cortometraggio)
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