Mis(S)conosciute - La newsletter #38: “Fuori la guerra dalla storia”
Lidia Menapace, Bianca Guidetti Serra e Ibtisam Azem
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“Fuori la guerra dalla storia”: questa frase soleva ripetere, come un motto, Lidia Menapace, piemontese, politica e partigiana - nome di battaglia Bruna -, pacifista radicale dal cognome - acquisito - parlante, morta nel 2020, di cui il 4 aprile scorso abbiamo commemorato il centenario della nascita e a cui dedichiamo un ampio approfondimento in questo numero della newsletter.
La previsione di Menapace, formulata a ridosso del termine della seconda guerra mondiale, nell’aprile 2024 - 79 anni dopo - suona sinistra perché vede sì cadere in pratica il 79° anniversario della pace in Italia, ma anche la ricorrenza dei 6 mesi dall’inizio della guerra a Gaza e dei 26 mesi di guerra in Ucraina.
Approcciarci al 25 aprile 2024 non è dunque semplice: “uno spettro si aggira per l’Europa” ma non è quello della rivoluzione, bensì quello della guerra.
Da oltre due anni assistiamo al massacro in corso in Ucraina e ciclicamente, a fasi alterne, fa capolino nei discorsi e nelle dichiarazioni degli statisti comunitari, il cui spessore sarà la Storia - se ce ne sarà una - a decretare, la locuzione “terza guerra mondiale”. Espressione proferita con sussiego, gravità e talvolta una eccitazione vibratile nella voce. I media riecheggiano, rilanciano, enfatizzano, propagandano questa volontà di potenza belligerante per poi ripiombare il teatro di guerra orientale nel silenzio, non appena passato l’hype delle breaking news.
E noi viviamo, tra le contumelie di ogni giorno, con l’illusione di poter essere risparmiati dall’ecatombe, senza che mai una discussione politica reale (ad esempio sul continuare o smettere di dare armi ad un Paese che abbiamo prima convinto ad aderire alla Nato e poi illuso di avere un appoggio incondizionato) entri nel dibattito pubblico, smuova le coscienze, ci metta davanti all’eventualità di affrontare un futuro di freddo, fame, morte.
O anche di non affrontarlo, ma di fare poi i conti con la coscienza di un continente che si ritiene evoluto e democratico e che ha trascorso 26 mesi ad osservare da lontano (lontano?! Kiev dista da Roma quanto Siviglia, circa 2500 km) una carneficina continua e 6 mesi ad assistere al massacro quotidiano perpetrato dall’esercito israeliano nei confronti di decine di migliaia di civili palestinesi a Gaza, che sembra aver suscitato vero sdegno solo quando a non essere risparmiati sono stati anche i cooperanti occidentali di World Central Kitchen, la scorsa settimana.
A 79 anni dalla fine della seconda guerra mondiale sembra un incubo contemplare ancora la possibilità - e nella peggiore (ma non troppo remota) delle ipotesi, la volontà politica ed economica - dell’orrore della guerra.
Però forse dovremmo farlo collettivamente, vincere il disgusto e la paura che il solo pronunciare la parola “guerra” ingenera: solo parlandone, ragionandone, potremo affilare gli strumenti democratici per evitarla.
Solo accettando di prendere in considerazione il disastro umanitario e sociale che rappresenterebbe qui da noi, nelle nostre case, nelle nostre famiglie, e che già altrove è in atto, potremo innescare un cambiamento e maturare una coscienza profonda della nostra responsabilità individuale in tutto ciò che sta accadendo, una responsabilità che è intrinsecamente legata al modo in cui viviamo, produciamo e consumiamo e quindi al modo in cui votiamo e al futuro collettivo che immaginiamo - se lo immaginiamo.
Se non ci disponiamo a parlare di guerra e soprattutto delle sue conseguenze non troveremo mai davvero la forza di ridimensionare i nostri bisogni, di rinunciare, almeno in parte (una parte consistente), a ciò che ci è superfluo e genera squilibri e dunque a farci finalmente carico del nostro ruolo nel mondo.
Parlare di guerra (ovviamente non in termini di interventismo) e guardare in faccia le sue conseguenze è forse l’unico modo per comprendere concretamente, materialmente il valore della pace e lottare, possibilmente in modo non violento, per preservarla e per abbattere, sul lungo periodo, l’ideologia della forza cieca che ancora oggi, sotto il paramento di fini strategie, muove l’agire politico delle “grandi potenze” e dei loro Stati satellite, quasi esclusivamente capeggiati da maschi over 70 che compensano la sarcopenia da andropausa con la sete di sangue.
Ragionare di guerra, di guerre, e contribuire attivamente con azioni pubbliche e private al sovvertimento dei sistemi di potere che soffiano sul fuoco del conflitto è l’unica strategia di sopravvivenza possibile non solo per noi - che per ora siamo ancora avvolti nell’effimera sicurezza che il capitalismo ha preteso di rendere status quo dell’Occidente, la nostra modesta Zona d’interesse, confortevole e accogliente per alcuni, per molti altri già abbastanza sgarrupata e inospitale - ma per tutti. Non farlo, rifugiarci nell’inedia pappagallesca dell’informazione di massa, serve solo a coltivare il pensiero illusorio - e unico - che comunque vada ne saremo risparmiati: ma non è vero, non lo saremo.
Gli equilibri politico-economici del mondo in cui viviamo sono troppo interconnessi per consentire a chicchessia di farla franca.
Le proteste di decine di migliaia di israeliani per la destituzione di Netanyahu in questi giorni dovrebbero farci da monito. Le persone hanno ancora capacità di presa sulla Storia, se a muoverle c’è un’idea condivisa di mondo e di futuro.
Questa è la lezione che noi riteniamo più importante della Resistenza ed in particolare di quella porzione di Resistenza a lungo trascurata rappresentata dalle partigiane.
Ne abbiamo parlato l’8 marzo scorso in un luogo simbolo dell’antifascismo, Casa Cervi, a Gattatico (RE), il podere di campagna in cui abitavano i sette fratelli Gelindo, Antenore, Aldo, Ovidio, Fernando, Agostino ed Ettore - giustiziati dai fascisti, con Quarto Camurri, nel carcere di Reggio Emilia il 28 dicembre 1943 -, le sorelle Rina e Diomira e le rispettive famiglie (mogli, mariti e figli) e i genitori Alcide e Genoeffa Cocconi.
Per le donne che hanno preso parte attivamente alla lotta di Liberazione, imbracciando le armi ma anche trasportando messaggi, cucinando pasti, rammendando vestiti, curando feriti, educando figli, e che abbiamo raccontato nelle staffette partigiane in podcast del 2022 (si ascoltano qui e qui) e del 2023 (si ascoltano qui e qui) e nella puntata monografica su Tina Merlin realizzata in collaborazione con Protagoniste, acquisire coscienza della valenza decisiva del proprio ruolo nel presente è stato fondamentale per progettare e poi concretizzare, a guerra finita, una realtà in cui fosse possibile sottrarsi al determinismo che per secoli aveva oppresso le donne: ottenere il voto, sedere nella Costituente, conquistare alcuni diritti fondamentali prima negati, avere accesso a professioni che prima erano appannaggio esclusivo degli uomini, gettare le basi per un avvenire di giustizia.
Pensare e agire nella realtà in una dimensione collettiva ha permesso a quelle donne di disegnare una prospettiva diversa del mondo del futuro, in cui ora tutti e tutte ci muoviamo, liberi. Unirsi davvero e saldamente per la causa della pace è ciò che può salvarci dalla sensazione catastrofica di essere in balìa della Storia, come i personaggi del romanzo di Elsa Morante. Dalle partigiane abbiamo imparato che insieme la Storia si può orientare, si può fare, con le braccia, con le mani, con le gambe e con i cervelli: se vi sembra poco.
Viva il 25 aprile!
Domenica 21 aprile ore 21:00 - Festival Libri per le tue orecchie - ZALIB [ROMA]
Nell’ambito del festival audio Libri per le tue orecchie organizzato da Emons Edizioni, presentiamo in anteprima il nostro nuovo progetto podcast prodotto da Emons Record.
Si intitola Gagliarda Potenza: vita e opere straordinarie di Goliarda Sapienza ed è una serie podcast interamente dedicata all’autrice catanese che quest’anno avrebbe compiuto 100 anni! Vi aspettiamo!
Venerdì 10 maggio ore 18:00 - Salone del Libro di Torino - Rooftop by Pinacoteca Agnelli [TORINO]
… sì, teoricamente questa news avremmo dovuto darvela nella newsletter di maggio ma dato che arriverà molto a ridosso dell’appuntamento, preferiamo anticiparci, così potrete raggiungerci con più agio! Il 10 maggio, anniversario tondo tondo del 100° compleanno di Sapienza, presenteremo infatti urbi et orbi il nostro podcast Gagliarda Potenza: vita e opere straordinarie di Goliarda Sapienza (Emons Record), che esce proprio quel giorno su tutte le piattaforme, e parleremo diffusamente della scrittrice centenaria insieme a Ippolita Di Majo, autrice della versione teatrale de Il filo di mezzogiorno, accompagnate dalle letture “sapienziali” di Donatella Finocchiaro e Paola Pace, con la moderazione di Laura Pezzino.
Una rubrica dedicata alla letteratura palestinese in cui le autrici e curatrici del progetto divulgativo Oriental Book Club raccontano ogni mese una scrittrice palestinese da scoprire.
La scrittrice: Ibtisam Azem
Dopo quasi due mesi da quel sabato di ottobre 2023, Ibtisam Azem rilascia un’intervista telefonica a Shady Hamadi riguardo il suo ultimo romanzo, pubblicato in Italia nel 2021, ma (ri)scoperto da lettrici e lettori sulla scia degli eventi recenti.
La sparizione dei palestinesi nel mio romanzo ha una lettura simbolica, anche se collegata a fatti veri. [...] La Nakba del 1948 è stato il primo tentativo di far scomparire i palestinesi dalla loro terra. In quell’anno le milizie sioniste, poi trasformatesi nell’esercito israeliano, hanno commesso massacri, distrutto o svuotato oltre 500 località, obbligando 750.000 palestinesi a fuggire dalle proprie case.
Un’affermazione che, in questo preciso momento, potrebbe apparire come una lucida visione del futuro, spogliata dal suo simbolismo, da parte di una delle scrittrici che meglio è riuscita a spiegare la contemporaneità palestinese utilizzando l’immaginazione letteraria.
Ibtisam Azem (1974), palestinese con cittadinanza israeliana nata a Tayibe (nord di Jaffa), si è formata all’Università Ebraica di Gerusalemme, ha poi conseguito due Lauree Magistrali - la prima in Letteratura inglese all’Università di Friburgo e la seconda in Islamic studies alla Silver School of Social Work dell’Università di New York - e oggi lavora come giornalista e corrispondente per la Deutsche Welle TV-Arabic di Berlino e per il giornale al-Araby al-Jadeed di New York, dove vive.
Oriental Book Club è un podcast e un progetto di divulgazione letteraria indipendente pensato e scritto da Giulia&Frida. Si occupa di libri dal Mediterraneo, dal mondo arabo e persiano e dall’Asia.
Uno spazio in cui una scrittrice ospite consiglia ai lettori di #missconosciute un’autrice da leggere: la sua autrice preferita, una scrittrice troppo poco nota, poco pubblicata, un libro poco conosciuto di un’autrice famosa o la scrittrice che secondo lei tutti dovrebbero leggere.
Un’intervista di Elisiana Fratocchi a Lidia Menapace
Elisiana Fratocchi (1989) è ricercatrice all’università di Tor Vergata e insegna all’Università di Urbino. Si occupa di Letteratura italiana contemporanea, con una predilezione per le scritture politiche femminili del Novecento. È coautrice del volume Il pane e le rose. Scritture femminili di Resistenza (Bulzoni, Roma 2018) e di vari saggi sulle autrici italiane, molti dei quali dedicati alle opere di Elsa Morante e Ada Prospero Gobetti. Per la sua tesi di dottorato, discussa nel 2018 alla Sapienza di Roma, ha svolto un’analisi stilistica sulle Riviste femminili di Resistenza, e con l’occasione si è imbattuta in figure di scrittrici meno note, come Lidia Menapace e Marisa Ombra (che ha avuto il tempo e la fortuna di conoscere).
LIDIA MENAPACE
La newsletter di questo mese si apre con una frase che la partigiana Lidia Menapace ripeteva come un motto: “Fuori la guerra dalla storia”. Politica e partigiana, pacifista radicale il 3 aprile 2024 Menapace avrebbe compiuto cento anni. Nata il 3 aprile 1924 nei pressi di Novara e scomparsa a causa del Covid nel dicembre 2020, le è stato risparmiato il dolore di assistere alla deflagrazione delle guerre che in questi anni stanno scuotendo il mondo e, talvolta, speriamo, anche le coscienze.
Una vita spesa contro la guerra, consacrata ai valori della Resistenza e dedicata alla libertà, all’autodeterminazione, al pacifismo radicale e attivo che ripudia ogni forma di scontro violento e che si incarna nell’incontro, rendendo la relazione garante di eguaglianza e di reale emancipazione. Promotrice della “Convenzione permanente di donne contro tutte le guerre”, testimone infaticabile e attivista determinata, online si trovano moltissimi video che ci permettono di ascoltare le sue idee e i suoi racconti. In un intervento tenuto nel 2011 dice:
“Esiste una definizione giuridica positiva, formale, di che cosa è la guerra. Si dice “guerra: conflitto tra due stati attraverso le armi”. […] Invece la pace non è definita. Non si può dire che la pace è assenza di guerra, perché sarebbe come dire che il triangolo è assenza del quadrato, non si definisce mai una cosa per assenza di un’altra. Non si può nemmeno dire che la pace è la fine della guerra, no, perché il fine e la fine della guerra è la vittoria non la pace. C’è proprio un ampio spazio di definizioni giuridiche quindi conviene aprire un dibattito su che cosa si vuole che sia la pace. Io propongo una definizione che è: “governo non violento dei conflitti”. Vuol dire che si riconosce che i conflitti ci sono, in tutta la vita, tra le persone, tra i territori. Che è possibile tenerli sotto controllo, governarli, attraverso strumenti non violenti. Questa mi sembra una buona definizione di pace. Si può discuterne”.
Mai come oggi le parole-guida di Lidia Menapace sono attuali e ci pongono di fronte all’inderogabile e incontrovertibile principio, da lei propugnato per una vita, che si può e si deve resistere anche senza armi.
In questo numero della newsletter di qualche tempo fa trovate un profilo biografico di Lidia Menapace, che si può anche ascoltare nell’episodio in podcast della newsletter:
Questo mese nella rubrica scrittrice legge scrittrice ospitiamo la ricercatrice Elisiana Fratocchi, che il 5 febbraio 2015 ha avuto l’occasione e la fortuna di incontrare Lidia Menapace nella sua casa di Bolzano per raccogliere l’intervista che trovate di seguito.
Ringraziamo Elisiana per aver condiviso con noi questo pezzo di storia!
Buona lettura.
Una vita intensa, quella di Lidia Menapace, staffetta partigiana prima e poi femminista, fondatrice del Manifesto, senatrice, dirigente della Democrazia Cristiana, docente all’Università Cattolica di Milano. Lidia Menapace è l’emblema di una intera generazione di giovani donne, una delle poche testimoni che può raccontare ancora con la sua viva voce l’esperienza personale e politica che fu per quelle ragazze la Resistenza. Sono andata a trovarla nella sua casa di Bolzano per chiederle di riportare alla memoria la Lidia della giovinezza, la partigiana che si muoveva nel novarese con la sua bicicletta, la ragazza intrepida che quel sorriso largo, generoso oggi rievoca.
Come è avvenuto il primo contatto con la Resistenza?
Un pomeriggio, mentre passeggiavo, un giovane con un fucile in braccio mi sbarrò la strada. Vidi che dietro di lui altri due ragazzi stavano abbattendo i pali della luce. Il giovane che ci aveva fermato ci chiese chi eravamo e se in città ci fossero truppe nazi-fasciste. Allora capii che i partigiani esistevano davvero. Già dal settembre del 1943 mi ero resa conto che la situazione era insostenibile. Avevo quasi vent’anni e volevo fare qualcosa per aiutare gli altri: partigiani, ebrei, i cosiddetti “militari renitenti alla leva”, che in realtà erano dei semplici ragazzi, a volte più giovani di me, che venivano chiamati alle armi da Mussolini e disobbedivano. Allora bisognava nasconderli o mandarli in montagna. Così, naturalmente, iniziai a darmi da fare e mi misi in contatto con alcune donne che sbrigavano queste mansioni. Bisognava portare medicinali ai feriti, e io ero a disposizione; bisognava portare un messaggio in montagna, e io partivo con la mia bicicletta. Ho accompagnato più di un ragazzo ebreo alla frontiera svizzera. Di uno ricordo ancora il nome... Sinigaglia.
Oltre a portare viveri, medicinali e messaggi preziosi alle brigate in montagna, le donne solitamente si occupavano anche della diffusione dei giornali clandestini. È successo anche a lei?
Certamente! Io distribuivo «Il Ribelle». Con il cestino per la spesa sul manubrio della bicicletta, e un plico di questo giornale involtato casualmente, uscivo di notte: deponevo una copia del «Ribelle» sotto portoni e cancelli di case che mi erano state segnalate precedentemente. Poi andavo dal macellaio, aspettando l’apertura, per prendere i pezzi di carne migliori prima degli altri, da portare a casa. Il mio era un lavoro doppio: nell’impegno politico, non ho mai dimenticato la mia casa, la mia famiglia.
Può dirci qualcosa in più su questo foglio clandestino?
«Il Ribelle» deriva da un altro foglio della clandestinità bresciana, «Brescia libera». Nel ’44 i rastrellamenti nazifascisti avevano portato alla cattura e all’uccisione di molti antifascisti, tra cui alcuni collaboratori del giornale. Faccio un solo nome per tutti: Astolfo Lunardi, principale promotore del giornale, che poi fu anche ucciso. Voleva fare di «Brescia libera» l’organo di informazione di un’organizzazione militare antifascista, mai realizzata, che doveva chiamarsi «Guardia nazionale». Dalle ceneri di questo progetto è nato «Il Ribelle».
La storiografia ha da anni mostrato l’importanza del ruolo della donna nella lotta resistenziale. Che cosa ha voluto dire essere donna in una brigata partigiana formata principalmente da uomini?
C’era grande solidarietà con le compagne e anche con i compagni. Ma la Resistenza non fu così eroica come immaginiamo. E una volta finita l’esperienza della Resistenza, il maschilismo è emerso di nuovo, quasi più potente di prima. In vista della sfilata del 25 aprile, Togliatti a Milano non voleva che sfilassero le donne. Teresa Mattei, che fu una delle madri costituenti, stava con un uomo di Firenze ma, poiché non c’era il divorzio, lui figurava ancora sposato e quando lei rimase incinta di lui, Togliatti le intimò di abortire o di dimettersi. Il nostro Paese è ancora oggi patriarcale: abbiamo un Presidente della Repubblica uomo, ad esempio.
Anche le donne, come gli uomini, avevano uno pseudonimo nella clandestinità, segno che i pericoli che correvate erano pari a quelli dei compagni maschi. Qual era il suo?
Sì. Come tante altre partigiane, anche io avevo il mio “nome di battaglia”. Mi chiamavo Bruna. Nelle azioni di staffetta mi muovevo spesso con un’altra ragazza, divenuta poi mia carissima amica, che era bionda. Era stato così deciso che io, per i miei capelli castani, dovessi chiamarmi Bruna e lei Chiara. Una volta Radio Londra inviò il seguente messaggio: «Bruna sta bene!». Era il segnale che vi sarebbe stato un lancio di armi per noi.
A proposito di armi, lei ha avuto il brevetto di «partigiana combattente con il grado di sottotenente». Carla Capponi racconta nell’autobiografia [Con cuore di donna, n.d.r.] della sua partecipazione attiva all’attentato di via Rasella e non solo. Anche lei è stata una di quelle donne partigiane, di cui emergono testimonianze fotografiche sempre più numerose, che hanno impugnato il fucile?
Ho il brevetto, vero, ma non ho mai usato le armi. Non le ho mai nemmeno portate con me. Inizialmente non lo facevo perché temevo di farmi male inconsapevolmente: a casa mia non c’è mai stata nemmeno l’ombra di un’arma da fuoco e sapevo a malapena come fossero fatte. Mio padre e mia madre non me lo avrebbero mai perdonato. Perciò quando mi chiesero se volessi essere addestrata, risposi con un no deciso. Come dico spesso, non volevo «sparare alla pace di nessuno». E questo è stato l’inizio della mia “battaglia pacifista”, che mi ha accompagnato per tutta la vita. Anche quando, da senatrice con Rifondazione Comunista [2006 n.d.r.], fui indicata come presidente della Commissione Difesa, ma non fui eletta per le mie posizioni pacifiste.
A proposito dei suoi genitori, da che tipo di famiglia veniva? «Indifferente» come la Rossanda definisce la sua di famiglia nell’autobiografia La ragazza del secolo scorso, oppure politicamente impegnata? Nei racconti di alcune partigiane, sembra che la passione politica non sia nata da sé, ma sia stata trasmessa da un genitore o comunque da un’altra figura carismatica.
La mia famiglia era di tradizioni mazziniane e repubblicane per parte paterna; anarchica, invece, da parte di mia madre. Infatti sono sempre stata una bambina scettica nei confronti del Fascismo. In casa si respirava un’aria latentemente sovversiva. I miei mandarono me, mia sorella e mio fratello, alle scuole pubbliche, perché quelle private, oltre ad essere costose, allenavano all’obbedienza, dote carissima a Mussolini, e alla gratitudine; invece secondo i miei non bisognava essere grati a un’autorità solo perché si concedevano diritti fondamentali.
In una intervista che ho fatto a Marisa Ombra è emersa l’importanza che i libri hanno avuto nella sua formazione. Inoltre nelle memorie di alcune donne che hanno partecipato alla Resistenza, si fa riferimento regolare alla biblioteca paterna, alla passione per la letteratura che i genitori avevano trasmesso loro. Sembra quasi che l’esercizio della lettura abbia inciso, in un modo sottile e misterioso nella formazione della loro indole ribelle. Questo è vero anche per lei?
Assolutamente sì! Ma più che alla biblioteca paterna io attingevo alla biblioteca civica di Novara. Il bibliotecario era «‘l sciur» Rizzi, un mazziniano amico di mio padre. Era coltissimo, mi dava suggerimenti sulle letture e mi lasciava andare nella sala riservata della biblioteca. «‘L sciur» Rizzi è stata una figura fondamentale, insieme ai miei genitori, per la mia formazione culturale. Ecco, lui potrebbe aver avuto il ruolo di cui parlava prima, della persona che, grazie al suo carisma, ti trasmette una passione grande, per sempre. È stata come un’infezione virale. Rizzi mi dava in prestito, in grande segreto, i libri che Mussolini aveva proibito e che lui custodiva nella cantina della biblioteca. Me li dava il sabato alla chiusura e il lunedì mattina, prima che la biblioteca riaprisse, dovevo riportarglieli. Da allora non ho più smesso.
Lei ha all’attivo molte pubblicazioni e studi sul linguaggio, segno che la passione per la lettura ha inciso in più direzioni sulla sua vita. Come le altre partigiane nominate, lei ha scritto anche un’autobiografia, anzi, due: Io partigiana (Manni, Lecce 2014) e Canta il merlo sul frumento (Manni, Lecce 2015). Pensa che l’esercizio della memoria, la testimonianza possano aiutare a cambiare le cose?
La memoria è tutto ciò che abbiamo. Mi sono impegnata nella scrittura di questi libri proprio per dare un aiuto ai giovani di oggi: devono orientarsi in una modernità confusa e completamente appiattita sul presente, che non riconosce profondità storica. Per questo ho voluto citare, nell’introduzione a Io partigiana, una poesia di Italo Calvino che mi emoziona tantissimo, soprattutto per questi due versi, semplici ma straordinariamente densi: «Io spero che a narrarti riesca / la mia vita all’età che tu hai ora (...) E vorrei che quei nostri pensieri / quelle nostre speranze di allora / rivivessero in quel che tu speri / o ragazza color dell’aurora».
BIANCA GUIDETTI SERRA (1919 - 2014)
"Nel mestiere e nella militanza ho cercato di far valere contro la legge del più forte i diritti dei più deboli. Non mi sono mai sentita antagonista per principio: quando mi sono battuta contro qualcuno era per difendere qualcun altro"
Un gruppo di ragazzi - sono amici molto stretti - passeggia per le strade di Torino, ridono, fanno chiasso, forse per esorcizzare l’aria un po’ pesante che da qualche tempo è scesa in città. Forse è un pomeriggio di ottobre, o di novembre, le giornate si accorciano e comincia a fare freddo, dio solo sa quanto può essere fredda Torino a novembre. Ad un tratto alcuni di loro si bloccano, seri, davanti a una bacheca, ci sono dei manifesti, stelle di David, uomini con un grosso naso, forse accenni a un “complotto giudeo”. Una ragazza coi capelli ricci e lo sguardo vivo, senza dire nulla, si avvicina, e con la splendida aria di sfida dei suoi diciannove-vent’anni, fa quello che - forse - avremmo fatto tutt*, per difendere l’orgoglio di un amico ferito: li strappa. Gli altri la seguono.
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