Il prossimo 25 aprile cade l'ottantesimo anniversario della Liberazione dell'Italia dal Nazifascismo, una ricorrenza a cui Mis(S)conosciute tiene particolarmente, non solo per sottolineare i valori e gli ideali che animarono lo spirito della Resistenza e che, oggi più che mai, andrebbero tenuti presente, ma anche e soprattutto per ricordare le donne che di quel movimento di liberazione e rivoluzione fecero parte.
Nell'organizzare i pensieri per scrivere l'introduzione di questa newsletter tenendo presente i fatti di ieri e di oggi, ci siamo rese conto, drammaticamente, che un anno esatto fa nella newsletter di aprile 2024 (e poi in quella di luglio 2024, e praticamente in tutte quelle successive) affrontavamo le stesse tematiche su cui tentiamo di ragionare anche oggi: a 80 anni dalla fine della seconda guerra mondiale sul territorio italiano siamo ancora qui a parlare di guerra, di politiche guerrafondaie, di utopie di pace e di asfissia della capacità di immaginare una realtà che sappia funzionare in modi alternativi, diversi, in cui la risoluzione dei conflitti non si basi sulla violenza, sulle carneficine, sugli abusi di potere o sulla volontà di distruzione indiscriminata del "nemico".
Siamo ancora qui a "parlare di guerra", o meglio a sentirne parlare senza costrutto, a scrollare ossessivamente i nostri feed social per evitare di assistere passivamente all'ennesima carneficina, all'ennesima dichiarazione distopica dei potenti di turno, all'ennesimo grottesco video in cui, stavolta, ci vengono elencati gli oggetti che proprio non possono mancare nelle nostre borsette in caso di catastrofi belliche e/o ambientali. Sembra che l'intera infosfera in cui tutte siamo immerse stia tentando di prepararci solo all'inevitabile catastrofe, senza fare nulla per tentare di scansarci dalla bomba che sembra stia per prenderci in pieno. E questa disperante sensazione che non ci sia nulla da fare, e che l'unica possibilità che abbiamo sia essere coscienti che il mondo va così e non ci siano alternative, non fa altro che paralizzarci, collettivamente, senza tentare di agire e di immaginare un cambiamento.
Forse questo accade anche perché chi in questo cambiamento tenta di crederci viene sminuito, bollato come sognatore, come inguaribile romantico ancorato solo a una impossibile utopia: tentare di immaginare un modo diverso di vivere in società e collettività in questo angolo di universo in cui ci è capitato di esistere senza adoperare gli strumenti terribili della violenza, della distruzione e dell'annientamento in nome di ormai vetuste ideologie che si concretizzano in banalissime - ma non per questo meno catastrofiche - dispute per un pezzo di terra (e delle risorse energetiche che si celano nelle sue profondità).
E allora noi, in questa disperante realtà che non sembra darci scampo, ci rifugiamo nel pensiero di chi, avendo esperito sulla propria pelle cosa vuol dire vivere in un paese in guerra, cosa significa emotivamente imbracciare le armi per difendersi dai soprusi, cosa comporta assumersi la responsabilità di "volere" la pace e sotterrare la vendetta, su queste tematiche ha riflettuto ben prima, e di gran lunga meglio, di noi.
E tra le parole in cui ci riconosciamo ci sono anche quelle di Lidia Menapace, partigiana e pacifista, il cui motto "Fuori la guerra dalla storia" ci pone di fronte all’inderogabile e incontrovertibile principio, da lei propugnato per una vita, che si può e si deve resistere anche senza armi.
Il nucleo della ricerca del progetto Mis(S)conosciute è l’ampliamento del canone letterario e la rivalutazione della voce silenziata delle donne (rappresentanti della categoria dell’“Altro” per eccellenza) in letteratura e, di conseguenza, nell’intero sistema sociale, economico e politico. Dare voce a chi non ce l’ha e prestare ascolto a chi è stato sempre messo a tacere, ampliare lo sguardo e cambiare punto di vista nella narrazione e valutazione dei fatti sono i principi cardine della letteratura delle scrittrici di cui ci occupiamo e dovrebbero essere assunti come punti di partenza anche per considerare i fatti della storia, presente e passata. Come Menapace, tantissime altre donne hanno partecipato alla resistenza e alcune di loro, nel ripercorrere quella esperienza attraverso gli strumenti della scrittura e della letteratura, hanno respinto la riduzione del ruolo delle donne a semplici “staffette”, sottolineando l’apporto politico e l’azione di cura attiva esercitata dalle partigiane - e dalle donne in generale con le loro azioni di difesa popolare non violenta - durante la lotta. Nonostante le differenze, le diverse posizioni politiche e ideologiche, su un punto le scrittrici di cui ci occupiamo sono compatte: la guerra è una cosa terribile e bisogna occuparsi di pace, prendendo in prestito le parole di Teresa Mattei.
Nel dibattito odierno su guerra e pace - che sembra schierarci tutti in due grandi categorie, le "persone-pratiche-e-concrete" e le "idealiste-e-sognatrici" - le parole di Menapace sarebbero più utili che mai. La sua idea di pace, infatti, non era solo un'utopica illusione:
“Esiste una definizione giuridica formale, di che cos'è la guerra: “conflitto tra due stati attraverso le armi”. […] Invece la pace non è definita. […] Io propongo una definizione che è: “governo non violento dei conflitti”. Vuol dire che si riconosce che i conflitti ci sono, in tutta la vita, tra le persone, tra i territori. Che è possibile tenerli sotto controllo, governarli, attraverso strumenti non violenti. Questa mi sembra una buona definizione di pace. Si può discuterne”
Bisognerebbe discuterne ai tavoli del potere, che invece sono sempre più impegnati ad armarci fino ai denti, per la "sicurezza" e la "stabilità", contro i nemici di turno, sempre facili da trovare per garantire la continuità dell'industria del riarmo.
Verrà un giorno in cui tutto questo ci sembrerà un barbarico modo di governare il mondo, in cui l'orrore ci farà accapponare la pelle al solo pensare che questo era il modo in cui si governavano i conflitti? Utopicamente - qualcuno forse dirà ingenuamente - noi speriamo e, vogliamo credere, che quel giorno verrà.
Tentiamo di crederci perché, come ha detto la scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann oltre mezzo secolo fa:
“Talvolta mi è stato chiesto perché ho un’idea oppure una visione di un paese utopico, di un mondo utopico nel quale tutto sarà buono e nel quale tutti saremo buoni. Rispondere a questa domanda, visto che siamo confrontati continuamente con le nefandezze della quotidianità, può essere paradossale. Ciò che possediamo è nulla, si è ricchi se si possiede qualcosa che vale di più di ogni bene materiale. E io non credo a questo materialismo, a questa società di massa, a questo capitalismo, a questa mostruosità di oggi, a questo arricchirsi di gente che non ha alcun diritto di arricchirsi sulla nostra pelle. Io credo davvero in qualcosa e questo qualcosa lo chiamo “Verrà un giorno”. E un giorno verrà. Chissà, forse non verrà perché, sì, ce l’hanno sempre distrutto. Da migliaia di anni hanno continuato a distruggerlo. Non verrà, eppure ci credo. Perché se non posso crederci allora non posso neanche più scrivere.”
E se non possiamo più scrivere, allora, perderemo inesorabilmente anche la capacità di immaginare, di immaginarci nel tutto. E l'immaginazione è il motore che rende possibile l'impossibile, come ben sa un’altra grandissima scrittrice del secolo scorso:
La vera prosa dovrebbe fare ciò che soltanto lei può fare [...] permette una trasformazione, un impossessarsi della realtà. [...] La prosa dovrebbe far conoscere l’inconoscibile; mostrare, nominare, approfondire ciò che non è stato ancora visto o vissuto o che non è stato ancora pienamente approfondito. Render possibile all’uomo d’impossessarsene.
Christa Wolf, Pini e sabbia del Brandeburgo, 1990.
Sensi, ovvero di dettagli minori - Adania Shibli
Nel 2002 usciva Sensi di Adania Shibli (pubblicato in Italia inizialmente da Argo nel 2007 e ripubblicato nei primi mesi del 2025 da La nave di Teseo) vincitore dello Young Writer’s Award–Palestine della A. M. Qattan Foundation.
Questo volumetto di poco più di cento pagine è un caleidoscopio di immagini ed emozioni, dirompente per la sua prosa e sempre più attuale per le situazioni che delinea.
Protagonista delle cinque parti della narrazione è una ragazzina senza nome, così come sono senza nome tutti i personaggi che incontriamo nelle pagine.
Anche il tempo e il luogo sono per lo più imprecisati. Gli unici riferimenti spazio-temporali ci vengono forniti nel capitolo Lingua, ma contrariamente a quello che si potrebbe pensare in un contesto di “non detto”, di “impronunciabile” e di “incomprensibile” per la giovane protagonista che origlia i discorsi degli adulti.
Ogni sera la ragazzina va a letto per obbedire al sonno, stasera va a letto per obbedire alla madre. Di tanto in tanto, attraverso la porta che separa la sua stanza dal salotto dove tutta la famiglia è riunita, sente dei frammenti di parole "lzoni", "ttana", "Dio", "gazzini", "acciona", "atila". Quest'ultima è particolarmente difficile. Poi sente il tasto del televisore che viene schiacciato. Riesce appena a sentire da dietro la porta, e "atila" si trasforma in "abra e atila". Con qualche sforzo diventa "Sabra e Shatila". I fichi d'india e le piante grasse, che in arabo si chiamano sabr, sono sempre le stesse ovunque si trovino, ma non sa se queste piante nascono da altre piantine, in arabo shatl. Dorme finché non viene svegliata dal rumore del miele girato nel latte. Seguendo il rumore arriva nella camera dei suoi genitori.
Focus Palestina è una rubrica della newsletter mensile di Mis(S)conosciute – Scrittrici (e altre cose) tra parentesi dedicata alla letteratura palestinese in cui le autrici e curatrici del progetto divulgativo Oriental Book Club raccontano ogni mese una scrittrice palestinese da scoprire.
RENATA VIGANò (1900-1976)
Sebben chePerché siamo donne. Paura non abbiamoRenata Viganò
Renata Viganò nasce a Bologna nel 1900, dove muore nel 1976. Tra queste due date ci passa una vita straordinaria, quella di un’infermiera, di una partigiana, di una scrittrice, di un’emiliana: la sua vita.
Renata appartiene ad una famiglia borghese. Ama la letteratura fin da piccola: a 12 anni pubblica la sua prima raccolta di poesia, “La Ginestra in fiore”, e a 15 la seconda, “Piccola fiamma”.
Vorrebbe fare il medico ma per problemi economici di famiglia abbandona il liceo e inizia a prestare servizio come infermiera negli ospedali di Bologna, coltivando la scrittura nel poco tempo libero, collaborando con quotidiani e periodici.
«Io non sono nata dal popolo. Non ho avuto perciò il grande insegnamento di un’infanzia dura, di genitori premuti da lavori faticosi, da privazioni quotidiane. Ma la mia estrazione borghese non impedì che fossi portata a preferire le persone del popolo alla vellutata, stagnante, bigotta simulazione della classe a cui appartenevo».
Nei primi anni del fascismo si avvicina agli oppositori al regime: accetta di pagare 35 lire affinché uno di loro – che non ha mai conosciuto – venga rilasciato dalla prigione. Lui si chiama Antonio Meluschi e qualche tempo dopo diventerà il marito di Renata. Così li descrive il poeta antifascista Roberto Roversi:
“Vivevano in una violenta ma sobria povertà per conseguenza delle idee di cui non avevano paura, eppure erano sempre così liberi, nuovi, giusti (e umani) a incontrarti, anche nella loro casa di via Mascarella”.
Con Antonio inizia la militanza politica e dopo l’armistizio dell’8 settembre la coppia si unisce alla Resistenza partigiana, assieme al figlio Agostino, che ha solo 7 anni.
Il nome da staffetta di Renata è Contessa. La sua zona d’azione è vasta: dalle valli di Comacchio a tutta la Romagna. Presta servizio come staffetta garibaldina e come infermiera, collaborando alla stampa clandestina, fino al 25 aprile 1945.
Negli anni della lotta di Resistenza Renata incontra Agnese, la partigiana contadina a cui si ispirerà per creare la protagonista del suo romanzo più celebre, “L’Agnese va a morire”.
L’Agnese nata dalla penna (e dall’esperienza di vita) della Viganò è una lavandaia delle valli di Comacchio, una contadina sposata con Palita, comunista dalla salute malferma che viene deportato dai nazisti.
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